Intervista a Cettina Militello

Volti e storie: donne e teologia in Italia

Intervista a Cettina Militello

Agnese Maria Fortuna

È appena uscito, per le edizioni Effatà, Volti e storie: donne e teologia in Italia, quarto volume della collana del CTI Sui generis di Cettina Militello. Chiediamo all’autrice di raccontarci come è nata l’idea del volume
illustrandocene la genesi e le intenzioni.

Il volume raccoglie nell’ordine di pubblicazione le interviste già apparse su “Vita pastorale”, a ventinove
teologhe italiane o che lavorano in Italia. Frutto di una collaborazione mensile – era stato preceduto per tutto un anno da articoli su donne e teologia nel secolo XX –, le interviste sono state per così dire estemporanee.
Le ha rese possibile la disponibilità al momento delle colleghe contattate – qualcuna, ovviamente, ha declinato l’invito e, confesso, di non avere insistito in seguito, rispettandone le motivazioni. Ne è
venuto fuori un mosaico certo interessante, ma non esaustivo. Né questa era d’altra parte la mia intenzione. Nella successione originale, i nomi delle italiane si intrecciavano a quelli delle teologhe straniere, anche
se, poi, al momento della pubblicazione si è preferito rendere visibile il panorama italiano.

 

A una lettura trasversale del volume salta agli occhi la questione della ricezione del Concilio Vaticano II. Puoi dirci qualcosa
a riguardo?

Ho detto più e più volte che non staremmo a
parlare di donne e teologia, né avremmo donne “teologhe” se non ci fosse stato il Vaticano II. In qualche modo il nodo donna e Chiesa – nodo squisitamente post-conciliare – è presente in tutte le mie
interviste. In particolare però, la seconda sezione del volume ha quale suo spartito un documento conciliare. Ancora una volta si è trattato di cambiare il modulo dell’intervista – i lettori chiedono sempre
qualcosa di nuovo – e di celebrare il quarantesimo anniversario del Vaticano II. Mi è sembrato interessante verificare sul campo a che punto eravamo sulla via della ricezione. Devo dire che soprattutto relativamente
alle costituzioni e ai decreti mi sono mossa cercando di mettere a profitto la competenza disciplinare o la storia scientifica delle intervistate. Quanto al bilancio, si può facilmente costatare come, pur tra le difficoltà
e lentezze, il motivo ricorrente è quello “nulla sarà mai più come prima”. Il Vaticano II ha segnato una svolta e indietro non si torna. Le donne se sono un segno anche se non pienamente compiuto

 

Una costante delle interviste verte sulle difficoltà pratiche delle teologhe.

 “La teologia non da pane”, è l’amara costatazione
di tutte quante, a parte rare eccezioni. Nella stragrande maggioranza dei casi è evidente la difficoltà di conciliare la propria sopravvivenza quotidiana con l’impegno dell’insegnamento e della ricerca.
E non parlo delle difficoltà legate all’eventuale ruolo familiare. Insomma, non è in gioco l’intreccio donna-famiglia-lavoro, quanto piuttosto il problema di un lavoro non retribuito secondo giustizia. Ne
parlo con grandissima sofferenza; né mi vergogno di dire che la cosa riguarda innanzitutto me stessa. Sarebbe troppo lungo spiegare come e perché la teologia, l’insegnamento della teologia, non è considerato
un lavoro da retribuire. Ciò vale per i chierici – ma essi vivono dell’altare – e dunque anche per i laici e le laiche, i quali e le quali però non vivono dell’altare e dunque se scelgono la teologia
lo fanno a loro rischio e pericolo. Dico un po’ scherzando che posso permettermi questa precarietà perché non ho famiglia. Ma questa ovviamente è solo una battuta. Di recente un “amico” a cui facevo
presente una difficoltà economica pressante, e a cui chiedevo d’adoperarsi perché mi fosse fatta giustizia (diritti d’autore e affini), mi ha freddamente risposto che la questione non lo riguardava. È
facile dire così quando non si devono pagare le tasse, le bollette, fare la spesa ecc. ecc. A volte ho l’impressione che la nostra controparte viva fuori dal mondo. Magari però esibisce la dottrina sociale
cristiana come toccasana.

 

Ritieni che le donne possano in qualche modo operare concretamente perché questo stato di cose possa mutare?

Non so davvero cosa possiamo fare. Aggiungo che ho sempre
un po’ di paura a parlarne, perché la soluzione più facile è quella di eliminare il problema. Se i laici e le laiche stanno fuori dalla teologia, dall’insegnamento della teologia, la questione si risolve
da sé. Ma noi vogliamo continuare a insegnare. Eppure basterebbe poco, basterebbe che una diocesi, una comunità religiosa, un santuario si facesse carico di una o più cattedre. In fondo, il problema è
quello dell’irrilevanza della cultura comunque e sempre. Di carità culturale, se non ricordo male, parlava Rosmini, lo stesso che indicava come una delle piaghe della santa Chiesa la scarsa attenzione alla qualità
e alla retribuzione dei docenti di teologia. Quanto a me, spero solo che questo libro metta in circolo anche questo problema!

 

Nel curare l’editing del volume, sono rimasta colpita non soltanto dalla passione teologica che accumuna tutte quante, e
per la quale vengono pagati prezzi onerosissimi, ma anche dalla matura autocoscienza di ciascuna in quanto donna a tutto tondo impegnata
qua talis in un ambito di ricerca plurimillenariamente maschile: la coscienza di essere portatrici di una novità
e insieme di una tradizione, che sebbene sommersa o latente, ha accompagnato la storia del cristianesimo occidentale fin dai suoi albori. Il tuo volume ha anche il pregio di restituire alle più giovani la testimonianza
delle “veterane”, perché certamente c’è il rischio di dare per scontati i risultati raggiunti perdendo così almeno in parte il significato non banale del nostro teologare oggi in quanto donne. Nelle
tue ricorrenti domande sulle difficoltà delle donne nel fare teologia c’è forse un richiamo a considerare con maggiore “presenza” storica il qui e ora, con tutte le problematiche inedite che solleva in
specie a proposito della coesistenza di soggetti diversi un momento come il nostro in cui le voci delle “minoranze” non possono più essere considerate minoritarie. Puoi dirci qualcosa a riguardo?

Concordo pienamente con quanto dici e hai colto bene il filo
rosso che lega le interviste. Non ti rispondo a tono. Hai detto bene tu. Sai, non vorrei essere pesante e brontolona, ma sento da sempre la responsabilità di istituire una tradizione. Quello che mai è avvenuto
per le donne è proprio dar vita a una tradizione. Certo la tradizione minoritaria c’è stata e la recuperiamo, sia pure a fatica. Ciò che emerge più chiaramente è la meteora delle donne
teologhe. Le dame dell’Aventino, ad esempio, ci sono state, ma nessuno ne ha raccolto il testimone. Le grandi donne delle Riforma ci sono state, ma dopo di loro nessuno ne ha raccolto l’eredità culturale. Ebbene,
io vorrei, mutate le circostanze, che si stabilisse una catena testimoniale. Le donne ci sono nella Chiesa, ci sono nello studio, nell’insegnamento e nella ricerca della teologia. È stato faticoso ed è faticoso
esserci, ma in solidarietà sororale occorre stabilire una continuità tra le generazioni. Nell’autunno passato è morta una mia alunna della primissima ora: Silvana Manfredi. Ebbene, era già riuscita
a passare il testimone a una giovane sua allieva. Nella Pasqua dell’anno passato venne a casa mia per farmela conoscere. Ed ebbi la netta sensazione che tutte e tre, diverse per generazioni, appunto rappresentassimo la novità
di un legame che consapevolmente si sapeva e voleva essere tale. Se vuoi, faccio con le teologhe e le donne quello che faccio per il Vaticano II. A costo d’essere noiosa, parto sempre dal suo evento. Rivendico d’esserne
figlia. Allo stesso modo alle donne teologhe, colleghe o allieve, cerco di ricordare sempre il debito solidale delle une verso le altre e di tutte al Concilio. Se ho un sogno è anche quello di una tradizione finalmente
solo positiva. Vorrei che le teologhe non si sparassero addosso le une alle altre, che fossero solidali (è la terza volta che uso questo termine). A volte, ho l’impressione di essere considerata “obsoleta”. E
me ne addoloro, perché ciò vuol dire che non sono riuscita a far passare il modello che mi ha impegnata tutta una vita, quello dell’attenzione reciproca, della valorizzazione reciproca, del rispetto reciproco.
Sì, quasi me ne dimenticavo: le interviste volevano anche rendere visibili le altre, le più giovani, d’insegnamento se non d’anagrafe, visto che la mia avventura di docente è iniziata nel 1975. L’anno
prossimo saranno trentacinque anni!

 

Data la genesi, il volume, lo hai detto tu stessa, non rispecchia l’effettivo panorama delle teologhe italiane: hai forse
in progetto un seguito?

Le interviste, comunque modulate, hanno rappresentato una forma di collaborazione che su “Vita Pastorale” si è
conclusa. Questo non impedisce, ovviamente, se me ne è data occasione, di completare il quadro. Confesso che mi piacerebbe pubblicare le interviste fatte alle teologhe straniere. Mentre dubito possa diventare un volume
la serie: “Un’autrice, un libro”, che mi ha impegnata tra il 2007 e il 2008. Certo ha consentito di colmare dei vuoti. Cito per tutte Ina Siviglia, che è poi l’ultima tra le teologhe da me intervistate.

 

Non resta, allora, che ringraziarti, facendo tesoro delle tue indicazioni e sperando che i tuoi desideri, compreso quello
di un eventuale seguito a questo libro, possano realizzarsi.