[31 Dicembre 2010]… perchè il tempo che fugge non ci sfugga

Avrei
dovuto farlo, ma non sempre riusciamo a fare quello che vorremmo e
che sarebbe giusto fare. Avrei dovuto farmi presente al CTI con un
augurio per il natale. Non avevo però grande voglia di moltiplicare
parole. Per non correre il rischio, proprio a natale, di cedere alla
convenzione? Non soltanto. A volte, come per Zaccaria, un po’ di
“ammutolimento” si impone. E, comunque, non dipende mai da una
propria decisione.


Non
voglio però far passare anche questa fine d’anno senza una parola
di amicizia. Ripensare a un anno che si conclude è già importante
in sé, ma provare, quando si condividono un progetto e una speranza,
a farlo insieme è indispensabile. Perché il tempo che fugge non ci
sfugga, le cose fatte non evaporino, le persone e le situazioni non
svaniscano nell’indistinto. Non si tratta tanto di un “amarcord”
di ciò che ci ha visto coinvolte/i, ciascuna/o per suo conto e
insieme, nel portare avanti l’impegno di teologhe dentro la vita e
non solo nei confronti della vita, dentro la vita professionale,
familiare, relazionale, ecclesiale … nella fatica di fare della
ricerca del senso teologico della vita uno stile di pensiero e di
giudizio prima ancora che un compito. Si tratta di ripensare a tutto
ciò che abbiamo fatto e a quanto ci siamo lasciate/i scappare come a
qualcosa di indispensabile per far lievitare la farina (Mt 13,33),
come a un seme che rende il cento per uno (Mc 4,8), come alla lampada
che non viene messa sotto il moggio e che illumina tutti quelli che
sono nella casa (Mt 5,15). Non per attribuire a ciò che si è fatto
i connotati dell’eccezionale né per modularlo secondo la mistica,
così presuntamente “femminile”, delle piccole cose.
Semplicemente per collocarlo, come tutta la nostra vita, dentro il
tempo di Dio.

Ripensare
infatti teologicamente all’anno che si conclude è altra cosa.
Perché il tempo di Dio è altra cosa. Mille anni ai suoi occhi sono
come il giorno di ieri che è passato, recita il sapiente nella
salmodia biblica (Sal 90.4); “Maranathà” grida la comunità
riunita nell’attesa di una fine finalmente senza fine (1Cor 16,22):
pensare il tempo di Dio come storia di Dio-con-noi significa che il
passato non può finir confinato in un mondo di ombre e che il
futuro già ci è in qualche modo presente. Per chi non conosce la
lingua della teologia, sono solo giochi di parole, vaneggiamenti.
Insieme all’Israele biblico anche noi, invece, abbiamo imparato a
vivere la storia come tempo di Dio. Pensando, a volte un po’
ingenuamente, che Dio fosse artefice diretto degli avvenimenti oppure
apprendendo la reciproca fedeltà “nella buona e nella cattiva
sorte” e riscattando le tante pesantezze dell’oggi con l’attesa
di un sabato messianico. Come coronamento dei sei giorni creaturali o
come risarcimento per le lacrime versate, poco importa.

Il CTI
appartiene al tempo di Dio? Come tutto ciò che vive, certo. Scoprire
cosa questo significa e dove ci chiede di andare è compito sempre
aperto. Abbiamo preso l’impegno di contribuire affinché la nostra
chiesa e la cultura del nostro paese possano finalmente affrancarsi
dalle infinite forme di misoginia che le hanno marcate per secoli. Lo
abbiamo fatto in un momento in cui tutto, da questo punto di vista,
sembrava e sembra voler tornare indietro verso sottili forme di
barbarie androcratica. Intendiamo continuare a farlo anche se viene
ritenuto sorpassato e fuori moda. Perché le grandi trasformazioni
hanno bisogno di tempi lunghi e di molti passaggi generazionali.
Giovani donne che continuano a iscriversi in questi anni alle facoltà
teologiche e condividono la nostra stessa passione per la riflessione
e la ricerca teologiche attestano che questa catena generazionale è
tutt’altro che interrotta. E’ questa, in fondo, l’unica cosa
che veramente conta.

A tutte/i
allora l’augurio di iniziare l’anno – il proprio e quello del CTI
– con fiducia: ci benedice il Signore e ci custodisce, fa
risplendere per noi il suo volto e ci fa grazia; il Signore rivolge a
noi il suo volto e ci concede pace (cfr. Num 6,24ss).

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