Usa: revocata la scomunica alla suora che consentì un aborto per salvare una donna

USA: REVOCATA LA SCOMUNICA ALLA SUORE CHE CONSENTÌ UN ABORTO PER SALVARE UNA DONNA36454. PHOENIX-ADISTA. Era stata scomunicata per aver salvato una vita: suor Margaret McBride, vice presidente dell’ospedale St. Joseph di Phoenix, in Arizona, alla fine del 2009 aveva deciso di far abortire una donna ventisettenne incinta al terzo mese, già  madre di quattro bambini, affetta da una grave ipertensione polmonare che avrebbe portato alla morte, con una probabilità prossima al 100%, sia lei che il feto qualora avesse proseguito la gravidanza. Per salvare almeno lei, era necessario praticarle un aborto (v. Adista nn. 46/10; 1, 10/11). Ora la suora è stata “perdonata” ed è stata reintegrata nella sua posizione all’interno dell’ospedale e della congregazione delle Sisters of Mercy, di cui era superiora a Phoenix.
La decisione della McBride, presa nella sua veste di vicepresidente e di componente del comitato etico dell’ospedale, pertanto spesso consultata su questioni di coscienza, aveva scatenato una reazione a catena, per cui, dopo la scomunica da parte del vescovo locale, mons. Thomas J. Olmstedt, alla struttura sanitaria era stato addirittura ritirato lo status di «ospedale cattolico». Oltre alla suora – e alla paziente ­– erano stati scomunicati anche tutti i medici che avevano preso parte all’intervento sulla donna.
In un comunicato dell’8 dicembre, si legge sul Catholic News Service, l’agenzia dei vescovi statunitensi, l’ospedale afferma che suor Margaret «ha i requisiti per essere riammessa all’interno della Chiesa e non è più scomunicata. È pienamente reintegrata all’interno della congregazione delle Sisters of Mercy ed è componente apprezzata della direzione esecutiva dell’ospedale St. Joseph».
Proprio il ruolo svolto dalla suora nella vicenda e il suo coraggio nella gestione della controversia le sono valsi, lo scorso novembre, l’attribuzione di un premio, il Call To Action Leadership Award, in occasione dell’assemblea annuale dell’organismo cattolico progressista Call to Action.
All’epoca dei fatti, il vescovo Olmstedt aveva contestato la decisione della suora affermando che «la pari dignità di madre e figlio non erano state valutate allo stesso modo», e che il feto era stato «ucciso in modo diretto», cosa che costituisce una violazione delle direttive etiche e religiose. Nel corso del processo, tuttavia, l’associazione a cui l’ospedale fa capo, la Catholic Healthcare West, dichiarò che l’intenzione era di «salvare l’unica vita che poteva essere salvata», cioè quella della madre: «Dal punto di vista morale, etico e legale non possiamo semplicemente lasciare morire qualcuno la cui vita potremmo riuscire a salvare». Il vescovo aveva obiettato a sua volta che voleva «un’assistenza sanitaria davvero cattolica» e che bisognava «lavorare insieme, non uno contro l’altro» privando, alla fine del 2010, la struttura della sua identità cattolica e vietandovi la celebrazione della messa e l’adorazione del Santissimo Sacramento, che venne rimosso dalla cappella. La risposta dell’ospedale, però, era stata ferma: per noi non cambia nulla, aveva detto Suzanne Pfister, vicepresidente per gli affari esterni. E nulla era cambiato, a parte l’interruzione dell’appoggio finanziario da parte della diocesi: «Nessun calo dei finanziamenti provenienti da fonti federali, statali, privati, da fondazioni; si è registrato, al contrario, un aumento delle donazioni», aveva affermato, segnalando il forte appoggio, morale e non solo, ricevuto dagli Usa e dall’estero. (ludovica eugenio)
da: Adista Notizie n. 95 del 24/12/2011