“Anche la Chiesa ascolta poco le donne” intervista a M. Benedetta Zorzi

Da L’Unità – 10 agosto 2012
Si è rotto qualcosa nell’alleanza tra le donne e la Chiesa cattolica? La domanda è legittima. Non è in discussione il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa e nella società. Lo attestano numerosi testi ecclesiali, già a partire dal Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II vi ha dedicato un documento memorabile, la Mulieris dignitatem, dove si afferma perfino che alcuni passi biblici sulla donna non rispecchiano la mentalità evangelica. E chiarissima anche la presa di posizione, del 2004, da parte della Congregazione per la Dottrina della fede, che parlava del ruolo insostituibile delle donne in tutti gli aspetti della vita e della necessità di vederle presenti nel mondo del lavoro, dell’organizzazione sociale, nei posti di responsabilità, nella politica e nell’economia. Eppure nella Chiesa vi è ancora una forte tensione tra le dichiarazioni di principio e la prassi nell’affidare loro ruoli di responsabilità.

«Già il termine “genio femminile”, che stranamente non ha mai visto un corrispettivo “genio maschile”, rischia di essere facilmente strumentalizzato per veicolare una precisa idea di donna, più che per sostenere il riconoscimento dell’esperienza delle donne» afferma convinta Benedetta Selene Zorzi, monaca benedettina e teologa. Il tema lo sente particolarmente. Nata a Roma nel ’70, fa parte della generazione delle quarantenni, quelle che qualcuno vorrebbe «tentate dalla fuga». Da una ventina d’anni vive in un monastero a Fabriano, nelle Marche. Una vocazione maturata dopo gli studi di teologia, una laurea in filosofia e – ci tiene a sottolineare – anni di pallavolo giocato a livello agonistico. Fa parte del Coordinamento delle teologhe italiane, di cui gestisce il sito. «Certo, vi sono state donne che hanno svolto di fatto e svolgono ruoli di leadership nella Chiesa. Ma si fa ancora fatica ad avere spazi».

Con quale effetto?

«L’abbandono. Recenti statistiche ci dicono che tra le generazioni nate dal’ 46 al ’64 e quelle nate dopo il 1981 vi sono differenze abissali non solo socio-culturali, ma anche legate al rapporto con la fede e la Chiesa.

Le donne nate negli anni ’70 sono le più sensibili a questi cambiamenti. Non sentono più differenze di genere, vivono una disaffezione religiosa, sono lontane dai sacramenti e distanti dal sentire ecclesiale sulle tematiche politiche e le questioni etiche. Questa generazione oggi sta pagando il prezzo di non sentirsi ascoltata anche dentro la Chiesa».
È il fenomeno analizzato dal teologo don Armando Matteo nel suo “La fuga delle quarantenni“. Quanto è difficile il rapporto delle donne con la Chiesa?

«Non ringrazierò mai abbastanza l’autore di questo studio per averne parlato. Ancora più apprezzabile perché realizzato da un uomo e prete. La Chiesa non può perdere il rapporto con questa generazione, perché ne va della trasmissione della fede alle future generazioni».

Forse serve il coraggio del parlare chiaro. Come ha fatto suor Eugenia Bonetti, la superiora della Consolata impegnata contro la “tratta” delle donne, intervenuta il 13 febbraio 2011 a difesa della dignità della donna alla manifestazione “Se non ora quando”.

«Quando la Chiesa è profetica non ha difficoltà a farsi ascoltare. Suor Eugenia ha parlato di cose semplici, di valori trasversali come la pace e la dignità della donna, che non può essere considerata oggetto di dominio o strumento di piacere. Ma ha anche detto che bisogna costruire assieme, uomini e donne, nel quotidiano, una cultura del rispetto. Così suor Bonetti ha fatto eco al gesto del Concilio

Vaticano II, quando la Chiesa ha scelto la strada del dialogo con la società. È l’unica strada possibile per lavorare ad un futuro di pace, armonico per tutti. Quando la Chiesa fa ciò che è chiamata ad essere sa farsi ascoltare».

Non sempre è così credibile…

«Forse perché almeno in Italia abbiamo un modello di Chiesa dal volto ufficiale maschile, quando il tessuto vitale ecclesiale è assicurato soprattutto dalle donne: impegnate nella catechesi, nei luoghi di cura, tra i poveri e nelle parrocchie. Malgrado le loro competenze devono sottostare ancora ad una cultura segnata dal maschilismo. Quanto più la Chiesa saprà dare alle donne di oggi la possibilità di dispiegare sempre meglio tutta la gamma dei loro geni, tanto più realizzerà quell'”umano integrale” definito da papa Benedetto XVI “lo sviluppo di tutto l’essere umano e di tutti gli esseri umani”. Come religiose abbiamo un compito particolare. Rispondere alla forte ricerca di spiritualità espressa da donne anche estranee alla Chiesa cattolica, aiutando la Chiesa e le donne a ricucire un’antica alleanza».

Siamo alla vigilia dell’Anno della fede proclamato da Benedetto XVI nel 50° del Concilio Vaticano II. È possibile una “rievangelizzazione” senza aver fatto i conti con questi nodi?

«Non credo al separatismo di un certo femminismo radicale, che giustamente la Chiesa cattolica condanna. Per questo guardo con preoccupazione a quegli episodi in cui l’autorevolezza femminile viene screditata con un semplice richiamo all’ordine dall’alto. Così c’è il rischio che si debba dare ragione a chi pensa che la differenza di genere significhi che gli uomini non debbano pretendere di intervenire sulle donne o sulla vita interna delle loro congregazioni religiose. Significherebbe avallare l’esautoramento della Chiesa gerarchica dalla realtà femminile. Non è questa la strada».

Quale strada andrebbe percorsa?

«Non resta che percorrere quella del reciproco riconoscimento, della comune partecipazione e collaborazione. Le istituzioni ecclesiastiche dovrebbero riconoscere l’irreversibilità del cammino della nuova autocoscienza femminile. Sembra, invece, che siano ancora alle prese con un immaginario femminile che non corrisponde più all’autopercezione delle donne di oggi».

Ma c’è un limite che pare invalicabile: il sacerdozio riservato esclusivamente agli uomini…

«Sono convinta che il problema del ruolo della donna nella Chiesa vada lasciata indipendente dalle discussioni sul sacerdozio femminile. Intanto perché l’ideologia maschilista è ancora presente nelle Chiese che hanno aperto al sacerdozio femminile. Ma poi legare la questione femminile al falso binomio “donna e sacerdozio”, che non affronteremo mai, significa relegare al silenzio le tante questioni connesse alla nuova autocomprensione delle donne, all’identità sessuale e maschile in particolare, al ruolo del prete, ai modelli di gestione del potere in vista di una collaborazione tra uomini e donne per la costruzione di una Chiesa a due voci. L’ideologia del maschio al potere è, appunto, un’ideologia; l’emancipazione delle donne è storia. Come seppe riconoscere laPacem in Terris».

Le quarantenni in fuga dalla fede

L’allarme “mediatico” lo ha lanciato don Matteo Armando, il teologo autore dello studio La fuga delle quarantenni – Nuovi scenari del cattolicesimo italiano (Rubbettino, Soveria Mannelli 2012; pp. 105, euro 10). Il punto è «il progressivo allontanamento delle giovani generazioni femminili dal cattolicesimo». Commentando le inchieste sociologiche più recenti don Matteo osserva come «sulla linea femminile che si registra il mutamento generazionale più alto: lo scarto rispetto alla frequenza alla messa tra gli uomini nati prima del 1970 e quelli nati dopo il 1970 è di 15 punti, è invece di ben 25 punti lo scarto tra le donne nate prima del 1970 e quelle nate dopo il 1970». Non va meglio con «il riferimento alla fede in Dio». Si passa da «uno scarto maschile di soli 7 punti, tra i nati prima e quelli dopo il 1970, a uno femminile di 12 punti, prendendo in considerazione le nate prima e quelle dopo il 1970». Sono le quarantenni nate nel 1970 il punto critico del «progressivo cammino di omogeneizzazione dei comportamenti tra uomini e donne in relazione alla pratica della fede» che si compie nelle giovani nate dopo il 1981. Dopo quella data i giovani di entrambi i sessi «vanno di meno in chiesa, credono di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno cattolici».

Di Roberto Monteforte