Per muto sentier. Il confine incerto della teologia

“Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente, o Signore, è scesa dal cielo, dal tuo trono regale.” (Sap. 18, 14-15)

La notte di Natale si vuole segnata dal silenzio, nei testi che la accompagnano, come nei canti tradizionali. E’ il miracolo di una vita che nasce, è lo stupore di vederla, è lo spazio per accoglierla. Così per ognuno. Così anche per chi fa della teologia il proprio orizzonte. E’ lo spazio dell’ascolto, dello sguardo che scruta, del pensiero che interroga. Non sono così però tutti i silenzi: ci sono quelli dell’indifferenza, quelli dell’insignificanza, della omertà. Nel confine incerto fra il silenzio e la parola, fra il sonno e la veglia, fra la rassegnazione e la speranza abitiamo anche noi, scribi e scribe (ne esiste il femminile?) per questi giorni.

Di fronte agli eventi che si succedono incessantemente e che i media presentano sincronicamente, sia pure in forma sincopata, con primi piani e sfondi remoti, torna in mente con insistenza la frase di Hölderlin rilanciata da Heidegger e poi da molti altri: Perché i poeti nel tempo della scarsità?. Si può dire, nello stesso modo, perché i teologi nella crisi della storia e nel cortocircuito delle forme di comunicazione? Se “la buona politica è servizio della pace” (https://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/peace/documents/papa-francesco_20181208_messaggio-52giornatamondiale-pace2019.html ),lo può essere a propria volta la teologia? E come, abitando quali silenzi, seguendo quali linguaggi, pronunciando quali parole?

Non vorrei porre delle domande fine a sé stesse – i tempi forti e fra questi il Natale patiscono anche retoriche banali – ma percorrere con altre e altri una via di revisione e di riflessione, che, per il Coordinamento delle teologhe è anche un progetto di lavoro comune ( http://www.teologhe.org/seminari-cti/seminario-nazionale-cti-2019/ ). Certamente le parole della teologia hanno una loro necessaria gravità e non solo per il peso della memoria depositata in una lunga tradizione, ma per la lentezza che serve a interrompere la violenza del discorso che non è mai solo verbale (https://www.ceinews.it/2018/12/06/autorizzati-a-pensare-discorso-alla-citta-dellarcivescovo-di-milano-mario-delpini/ ), ma si sporge ben presto nei fatti. Per questo è bene che siano ponderate, che abbiano cara la fondatezza e l’argomentazione. Non basta tuttavia. Dovrebbero essere attraversate dall’inquietudine, ferite dalla storia, reindirizzate dall’alleanza dei corpi (Judith Butler). Restano certo parole di soglia, perché l’ascolto le piega e le domande le abita: purché di confine si tratti e non di confino, di membrana permeabile e non di recinto asettico. Con una caratteristica, sicuramente vantaggiosa: il lavoro della teologia è per sua stessa condizione sinodale, comunitario. Seguendo infatti la suggestione del paragone con l’operazione poetica mi sono imbattuta in Per amore del mondo. I discorsi politici dei premi Nobel per la letteratura, a cura di Daniela Padoan, Bombiani 2018. Bellissimi, si capisce, raccolti dal 1921 al 2015, molti anche di poeti e poetesse: nelle loro parole la poesia è sensore del mondo, ma in quegli stessi testi spesso il poeta si erge come figura solitaria. La teologia potrebbe apprendere quella sensibilità e quella libertà, in una trama verosimilmente meno avvincente ma, per statuto, più comunitaria. Su questa via possiamo abitare soglie, ascoltando silenzi, grida e canti e anche provando a nostra volta a prendere parola per la pace.

In certa misura si sta già facendo e immagino che molti lascino che lezioni, predicazioni e argomentazioni siano attraversati da tutto questo. Potremmo però avere tutti maggior respiro, maggior coraggio e dunque maggiore poesia, anche nella teologia. Questo è almeno l’augurio che reciprocamente ci facciamo.

Cristina Simonelli