Articolo sul convegno di Assisi

UN CONVEGNO AD ASSISI A VENT’ANNI DALLA PUBBLICAZIONE DELLA LETTERA APOSTOLICA DI GIOVANNI PAOLO II “MULIERIS DIGNITATEM”

Creata ad immagine di Dio

di Rosangela Vegetti, su "Settimana"

(SCARICA IN .PDF)

La
condizione della donna nella società e nella chiesa è lontana dall’aver
trovato una soluzione equa e rispettosa.
Analizzando le sollecitazioni presenti nella lettera apostolica del 15
agosto 1988 (Maria come modello, la differenza sessuale, l’essere umano
uomo/donna, la donna nei ruoli di sposa-vergine-madre) si è tentato un
bilancio della riflessione teologica fin qui prodotta.

Sembra ieri, invece sono passati vent’anni. Quando uscì la Mulieris dignitatem (MD) era il 15 agosto 1988, il decimo del pontificato di Giovanni Paolo II, e si era al
centro di un Anno mariano. Apparve subito come un documento inconsueto, una lettera apostolica in forma di riflessione, e su un tema inatteso: dignità e vocazione della donna. Tanto che in quel tempo non vi furono molte
personalità ecclesiastiche, teologi o pastori, salvo qualche articolo di ampio sostegno a quanto il testo papale affermava, e/o di contraddittorio con alcune osservazioni critiche da parte di ambienti femministi, disposti
e disponibili a presentare e a discutere il documento nelle diverse comunità parrocchiali – allora si usava ancora aprire dibattiti e fare approfondimenti su problematiche e documenti in parrocchia, circoli culturali,
movimenti, gruppi, persino seminari –, perché si diceva comunemente che si trattava di “questione femminile”, quindi appannaggio delle sole donne. Era infatti consuetudine che a quelle conversazioni di conoscenza
della MD raramente fossero presenti uomini, che discretamente si ritenevano estranei all’incontro.

 

Eppure quel testo segnò un passaggio epocale e prese le distanze da precedenti documenti magisteriali che dicevano la donna soggetta all’uomo, inadatta a condurre una
vita autonoma e inserita nella produttività, bisognosa di tutela e incapace di assumersi in proprio responsabilità, destinata per legge naturale a “stare al focolare”, accudire il marito e generare figli.

 

 

 

Nuove

 

prospettive?

 

Dopo un ventennio da quella lettera, non si può dire che ci siano state delle ricadute pastorali significative nella vita delle donne e delle comunità ecclesiali,
mentre eventi di varia portata hanno segnato e cambiato la storia delle donne in molte parti del mondo, il mondo si è globalizzato e sono mutate le regole della vita comune della gente. Però la MD non è
andata perduta, anzi, sembra poter adesso riprendere una sua nuova e rinnovata presenza nel contesto teologico e stimolare studi finora inesplorati, avvalendosi delle tante esperienze maturate da uomini e donne in ogni ambito.

 

Un punto di riferimento interessante è stato certamente il convegno svoltosi ad Assisi il 6 novembre scorso dal titolo Creata ad immagine di Dio. A vent’anni dalla “Mulieris
dignitatem”, promosso dall’Istituto teologico di Assisi e dall’Istituto teologico marchigiano (entrambi aggregati alla Facoltà di teologia della Lateranense), in collaborazione con il Coordinamento teologhe italiane.
Nella sede dell’Istituto assisano nel Sacro convento erano presenti circa duecento persone, tra cui diversi giovani, seminaristi e studenti di teologia, con i vescovi di Assisi, mons. Sorrentino, e di Macerata, mons. Giuliodori,
in un clima di studio partecipato e condiviso in cui le differenze – uomini/donne, sacerdoti/laiche, teologhe di diverse generazioni – hanno apportato una ricca suggestione di riflessioni e di temi. Ormai la questione
di genere entra anche nelle prospettive di studio teologico e – come spiega don Mario Florio, preside dell’Istituto marchigiano – «ci chiediamo come l’identità interpella la verità», e su questo tema
si è inaugurata la collaborazione tra i due istituti teologici regionali che, affrontando l’impegno per una maggior dignità della donna, auspicano di portare un servizio alle chiese locali.

 

Entrando nel merito della novità teologica apportata dalla MD, Simona Segoloni Ruta – docente di teologia ad Assisi e licenziata con una tesi proprio sulla MD alla Facoltà
teologica di Firenze – spiega che il documento ha suscitato negli anni delle delusioni in chi si aspettava delle posizioni innovative nella pratica, che non ci sono state, e in chi lo ha ritenuto troppo “tranquillizzante”
per produrre cambiamenti. In realtà una rivoluzione teologica c’è stata. «La MD riconosce la dignità di una questione e cerca nella tradizione la possibilità di tracciare un ponte tra la questione
della donna come oggi possiamo coglierla alla luce del vangelo e tutta la tradizione. Anche l’approccio a Maria è il tentativo che il pontefice fa di una concezione della donna come noi oggi la percepiamo e tutta
la tradizione pur segnata dal patriarcalismo. Va riconosciuto il tentativo anche coraggioso da parte di Giovanni Paolo II che dichiara alcuni testi – per esempio sulla sottomissione della donna – segnati dalla cultura
antica e non dal vangelo. Questo è un passaggio importante da rilevare. A me è sembrato un atto di coraggio dire che un testo biblico andava letto sotto il segno culturale di un tempo passato».

 

«La questione femminile solleva una domanda più radicale – afferma mons. Giuliodori nella sua relazione –, che si colloca a livello di identità profonda dell’essere
umano colto nella sua mascolinità e femminilità. Dietro alla questione femminile è riemersa la problematica antropologica e, al suo interno, la necessità di ripensare in termini nuovi anche il rapporto
di reciprocità tra uomo e donna superando le deboli interpretazioni elaborate nell’ottica della pura differenza o nella prospettiva della sola uguaglianza (…). Della radicalità del problema si rende conto
Giovanni Paolo II quando pone al centro della sua riflessione il tema della vocazione e della dignità della donna. Parlare di vocazione, significa collocare la donna dentro un orizzonte umano e soprannaturale in cui
può trovare le coordinate per riscoprire la sua vera identità. Parlare di dignità, significa manifestare il valore unico e irripetibile della donna, evidenziandone anche le responsabilità che ne
conseguono per ciascuno e per la società nel suo insieme. Giovanni Paolo II, partendo dalla Scrittura, conferma la centralità della problematica femminile sia per la comprensione della vicenda umana sia per la
realizzazione del piano di salvezza e afferma “che non si può avere un’adeguata ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è umano, senza un adeguato ricorso a ciò che è femminile”»
(MD 22).

 

La riflessione del papa si sviluppa a partire dall’“unità dei due”, formula che egli assume dal sapere biblico e che consente di riconoscere la diversità
dei soggetti, maschile e femminile, senza porli in posizione di sudditanza l’una dall’altro, ma in necessaria e vitale relazione, e che poi si articola sul piano del discorso filosofico e teologico dell’analogia per
spiegare che, se «l’uomo è “simile” a Dio: creato a sua immagine e somiglianza…, allora anche Dio è in qualche misura “simile” all’uomo e, proprio in base questa somiglianza, egli può essere
conosciuto dagli uomini» (MD 8). «L’assunzione dello strumento analogico permette una ricca compenetrazione – spiega mons. Giuliodori – e quindi una reciproca illuminazione dei piani antropologici e teologici, tanto
che diventa difficile separarli l’uno dall’altro. (…) Ed è grazie a questa linea di approfondimento teologico che viene in luce alla fine il vero genio della donna che consiste nell’essere espressione dell’essenza
stessa dell’umanità soprattutto nel suo rapportarsi con il divino. Alla donna, e in particolare alla sua sensibilità spirituale e materna, è affidato il cuore dell’umanità che palpita nel suo
cammino verso Dio».

 

 

 

Molti

 

i nodi irrisolti

 

La questione dell’identità femminile è ancora questione aperta, con molti nodi irrisolti a partire dalla primaria relazione uomo-donna in cui la parità
di significati, la corresponsabilità e la vocazione di ognuno pone interrogativi sui fondamenti antropologici e sul destino umano nella storia. Ma richiede anche nuove risposte di senso nella relazione donna-chiesa-Dio.
E lo strumento analogico va sottoposto ad ulteriori approfondimenti per avere criteri di comprensione anche sul versante della storia umana e per illuminare il significato dell’essere a immagine e somiglianza di Dio che,
per Giovanni Paolo II, costituisce l’immutabile base di tutta l’antropologia cristiana.

 

«Per quanto riguarda specificamente la donna, una tale antropologia essenzialista – afferma Marinella Perroni, docente al S. Anselmo di Roma e presidente del Coordinamento
teologhe italiane – trova nella mediazione mariologica, ulteriore specificazione simbolica. E allora, solo la realtà “donna-madre di Dio” può rappresentare il fondamento a partire dal quale una riflessione
sulla dignità e la vocazione della donna può trovare il suo senso più pieno, ma anche più vero».

 

Secondo Marinella Perroni, la MD «va considerata come una dichiarazione forte e potente della necessità di valutare le realtà umane sempre e comunque a partire
dalla rivelazione (…) e va inserita all’interno di una fatica e di una tensione. La fatica da parte della chiesa di assumere un discorso, una problematica e un insieme di situazioni che per secoli le sono rimasti estranei
e che sono esplosi a partire dal XIX secolo sotto il nome di “questione femminile”. Il primo segnale che questa assunzione era ormai improrogabile è stato dato dalla Pacem in terris. Quando, agli inizi degli anni
60, Giovanni XXIII riconosceva che “nella donna diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità” (n. 18)».

 

Due diversi orizzonti di riferimento caratterizzano i due documenti pontifici: nella Pacem in terris prevale il profilo socio-politico, nella Mulieris dignitatem l’universalismo
antropologico, il personalismo filosofico, il profilo teologico. Come a dire che non si può parlare solo per teorie o alti profili filosofici senza guardare alla realtà storica di donne il cui quotidiano esistere
è continuamente contrastato da diritti violati, da stereotipi culturali mai superati e sempre riproposti.

 

«Le antropologie incomplete con cui la teologia ha tentato di spiegare la fede, hanno implicato che, per lungo tempo, si considerasse creato pienamente ad immagine di Dio solo
l’uomo maschio: capiamo quindi – precisa Benedetta Zorzi, docente all’Istituto teologico marchigiano – perché c’è voluto così tanto tempo prima che la chiesa accettasse ufficialmente di affermare
che la donna è stata creata ad immagine di Dio. «L’apostolo scrisse non solo: “In Gesù Cristo (…) non c’è più uomo né donna”, ma anche: “Non c’è più schiavo né
libero”. E tuttavia, quante generazioni ci sono volute perché un tale principio si realizzasse nella storia dell’umanità con l’abolizione dell’istituto della schiavitù! (MD 24)».

 

Va però detto anche che siamo ancora lontani dall’aver idee chiare rispetto alla relazione tra anima e corpo sessuato, per tirare conclusioni. È urgente perciò
focalizzare qui gli sforzi della riflessione. L’uomo maschio permane come il criterio, seppur non esplicitamente dichiarato, di perfezione dell’umanità intera – come diceva s. Tommaso, il quale identificava in
modo errato la subordinazione femminile con la nozione stessa di femminile, senza peraltro un’adeguata considerazione del rapporto tra femminile, sessualità e attività riproduttiva. «Urge una nuova messa a
tema del maschile, una riflessione degli uomini sui modelli e i ruoli del maschio in relazione alla donna che ha cambiato i suoi, se l’esortazione di MD 7 è valida: essa dice che, a partire dalla relazione reciproca,
la donna permette all’uomo “di scoprire sempre di nuovo e confermare il senso integrale della propria umanità”».

 

Essere donne, dunque, nella fede non è un limite, non è qualcosa da scontare o da sanare: è solo uno dei due modi di essere umani che il Creatore ha pensato.
«La Mulieris dignitatem, dopo aver fissato lo sguardo su Maria, si ferma proprio sul mistero della differenza sessuale e cerca di comprendere perché Dio abbia voluto l’essere umano come maschio o femmina, trovandone
la spiegazione nella vocazione al dono di sé che caratterizza la persona umana: ciascuno è fatto per donarsi, il corpo sessuato ci insegna tale destinazione per il solo fatto di essere strutturalmente rivolto
verso un altro/a. Questa vocazione al dono di sé e alla comunione – precisa Simona Segoloni Ruta – è in contraddizione con ogni sottomissione; infatti, la sottomissione della donna praticata sistematicamente
per millenni non è secondo la volontà di Dio, ci dice il papa, ma conseguenza del peccato (si ricordino le parole del libro della Genesi dette alla donna dopo il peccato: “verso tuo marito sarà il tuo
istinto ma egli ti dominerà”)».

 

La domanda sui rapporti fra Maria e le donne, che si presenta come un punto d’avvio per infinite traiettorie di indagine, e che negli anni passati ha trovato posizioni divergenti
con l’estensione della ricerca psicologica, proprio circa il rapporto figlia-madre, è stata trattata nel convegno “Creata a sua immagine” da Lucia Vantini – teologa di Verona, dell’ultima generazione –:
«Maria è “la rappresentante e l’archetipo di tutto il genere umano”, scrive Giovanni Paolo II nella MD. Maria è la discepola perfetta che diviene totalmente recettiva dell’Altro: umile serva totalmente
disponibile a rinunciare al suo desiderio, ai suoi progetti esistenziali per lasciare che accada il paradosso più impensabile: l’incarnazione di Dio. Se la riflessione assume un tono universale, nel senso che riguarda
tutti, uomini e donne, è innegabile però che, nella prassi, Maria divenga un modello più stringente per le donne, che la percepiscono proprio come archetipo di genere. Quella Maria remissiva e accogliente
incombe quale figura imperiosa davanti alle donne perché, svettando in tutta la sua perfetta disponibilità, sembra domandare a tutte di imitarla. L’indagine si sposta dunque nell’ambito del dover-essere.
In lei tutte le donne, ma nessuna come lei. Maria infatti è una singolarità che pretende, quale modello, di comprendere tutte le donne, costringendole al paradosso di una “strana altalena” fra la totale uniformità
e la totale estraneità».

 

Il problema sta certo nell’uso e nella funzione del modello che può consentire la comprensione se non pretende di descrivere tutta la realtà;
e, quand’è così, ogni modello può essere sostituito o modificato. «I problemi nascono quando Maria viene indebitamente trasferita dal piano dei modelli al piano delle immagini del mondo o delle intuizioni
del mondo».

 

Si tratta, piuttosto, di riproporre certi caratteri, quali ad esempio la passività e l’accettazione, presentati come caratteri dell’indole femminile, in modalità
di accoglimento del tempo presente e di capacità di portarne le difficoltà in proiezione futura.

 

Per sottrarsi a moduli e percorsi strutturati al maschile, occorre accogliere anche la complessità della storia delle donne che non rappresentano un modello ma compongono
delle storie, talora che nessuno vede e narra. Tutte le questioni meritano di essere affrontate e sottoposte al vaglio teologico consapevoli di un duplice scacco: l’impossibilità di definire il femminile (e anche
il maschile, ovviamente) e la fatica di mantenere aperte le differenze fra donne senza scadere nell’identità coincidente o nella contrapposizione assoluta.

 

 

 

Sposa,

 

vergine, madre

 

«Sponsa, virgo, mater, sono locuzioni che nella tradizione ecclesiale declinano sia la chiesa che la Madre del Signore», ha esordito la teologa Cettina Militello, affrontando
proprio i temi ecclesiologici della MD e segnalando i punti problematici. Già nella Redemptoris mater (RM) del 1987, cui è seguita la lettera MD, al paragrafo 46, Giovanni Paolo II «addita Maria come realizzazione
piena della femminilità. In quel paragrafo, prossimo nel linguaggio alle ricerche coeve sulla così detta “specificità femminile”, il papa disegna per così dire un “femminile ideale” che,
proprio perché realizzato in Maria, ha motivo di essere assunto dalle donne. “La femminilità – egli scrive – si trova in una relazione singolare con la madre del Redentore”». Ora però sappiamo
che l’identità sessuale, come pure l’identità di genere, «non offrono modelli ideali, naturali o permanenti, ma assumono di tempo in tempo caratteristiche diverse corrispondenti all’aspettativa socio-culturale,
tant’è che parliamo anche ragionevolmente di una costruzione sociale dell’identità di genere». E nei tempi storici diverse sono le modalità con cui si esprime e si intende la differenza di genere.
Per questa ragione gli aggettivi indicativi della femminilità della RM n. 46 «possono sino ad un certo punto essere riconosciuti come costitutivi della “donna in quanto tale”. Di certo, il nostro tempo li ha fortemente
incrinati a favore di altra percezione di sé». Così vergine, sposa e madre risentono dell’antica cultura patriarcale entro cui esprimevano il rapporto di sottomissione e di inferiorità della donna rispetto
all’uomo maschio; proprie di quasi tutte le culture, non hanno il corrispettivo al maschile secondo cui un uomo possa essere definito, ed avere autorevolezza, in base alla sua condizione di sposo, vergine o padre.

 

 «Ci pare non di meno – continua Cettina Militello – che si debba oltrepassare questo involucro culturale per leggere comunque nell’intimo rapportarsi di uomini e
donne il segno della originaria e costitutiva creazione ad immagine. L’essere umano, maschio e femmina, è posto in essere non in solitudine ma in vicendevole rapporto. Tale rapporto è, in senso stretto, tutt’uno
con l’ad immagine di Gen 1,26, perché rinvia, noi cristiani, a un Dio in relazione». E la figura delle nozze suggerisce il farsi prossimo di un Dio che sceglie di farsi compagno innamorato della sua creatura.

 

La MD recepisce il tema sponsale nella lunga storia biblica sottolineando poi la novità evangelica portata dall’esortazione paolina “Mariti amate le vostre mogli”,
in cui si pone la donna nel pieno della sua persona al pari dell’uomo. Dall’esperienza umana si passa all’attenzione ecclesiologica entro cui la chiesa stessa è la sposa, simbolo dell’intera comunione umana
e l’amore di Cristo è l’amore di sposo, paradigma ed esemplare di ogni amore umano. Il discorso è certo difficile ma tenere sullo stesso piano il tema sponsale Cristo-chiesa e nozze umane è squilibrato
perché, se «la piena realizzazione di sé comporta per la chiesa l’assenso, la sottomissione, il riconoscimento della signoria di Cristo, perché tutto ella deve alla gratuità misericordiosa del
sangue dello Sposo, tutto deve alla passione di lui sulla croce (…), l’esperienza della sua creatura, il matrimonio nel suo accadimento umano, esige una dialettica relazionale che si sviluppa su un piano di assoluta parità».

 

Riflessioni, dunque, ancora ricche di spunti, di percorsi di approfondimento. «La dimensione del dono, insomma, è costitutiva del gratuito apostrofarsi e conoscersi e
amarsi di uomini e donne, che la vivono analogamente. Non c’è un primato maschile del dono e un primato femminile della corrispondenza al dono. Piano atropo-–logico e piano teo-logico divergono – sottolinea Militello
–. Perché se la “risposta” è l’attitudine fondamentale della creatura verso il Creatore, non può essere così sul piano dell’umano dove domanda e risposta sono amorosamente sincroniche.
Un primato dell’amore, della risposta all’amore riservata alla donna, costruisce una antropologia incoerente. Ma metaforizza pure un’ecclesiologia incoerente, perché avalla nel corpo del Signore, che è
la chiesa, un disegnarsi delle membra ipotecato dalla differenza sessuale».

 

 

 

Andare

 

oltre la paura

 

Come si potrà vedere leggendo gli Atti del convegno di Assisi, la questione femminile non è stata certo una perdita di tempo, né un ostacolo alla crescita
della comunità ecclesiale, ma ha messo in luce tanti ulteriori traguardi di conoscenza e di aderenza al messaggio evangelico. Ma, al presente, avanzano anche altri problemi, che portano paure ed incertezze, dovute alla
molteplicità dei linguaggi e al disorientamento culturale della globalizzazione, alla povertà di senso religioso della contemporaneità, tanto da offuscare ogni ricerca e svuotare di valore i simboli finora
espressi. Tanto da chiedersi se oggi si può ancora dire Dio e in che termini parlarne.

 

«Dire Dio con simboli femminili, oppure dire Dio a partire dalla differenza è molto più difficile che ricostruire una summa classica di pensiero teologico –
dice don Giampietro Ziviani, docente alla Facoltà teologica del Triveneto –, oppure riproporre il kerygma come molti usano fare oggi ritenendo che l’annuncio abbia un valore magico, perché si tratta di operare
con strumenti doppiamente segnati culturalmente: è culturale il linguaggio e il nostro tentativo di esprimere Dio con esso e sono culturali i concetti che mettiamo in gioco: quello di genere o quello di differenza.
È un lavoro contestuale, che non potrà garantirsi perennità di impianto e il cui guadagno sarà soprattutto di metodo: imparare a stare nel limite, abitare la transizione, parlare la lingua degli
uomini e delle donne, il che implica prima come minimo imparare ad ascoltarli e capirli bene».

 

 

 

Rosangela Vegetti