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Come Consiglio di Presidenza del CTI, abbiamo ripreso in mano i materiali del bel Seminario collegato all’Assemblea di maggio 2015. Le relazioni di Elisabeth Parmentier ( relazione FR | relazione IT ) e di Hervé Legrand ci hanno stimolato e aiutato a cogliere la nostra esperienza di donne e teologhe in un orizzonte più internazionale e più ecumenico. E ci pare che sempre più abbiamo bisogno di sguardi ampi e trasversali, di ricevere la grandezza del mondo e delle vite, pur rimanendo radicati nel qui ed ora del nostro essere lì dove oggi siamo.

La figura delle marce delle Donne e Uomini Scalzi in questi giorni, sulle strade di Europa, per accompagnare i passi dolorosi di chi cerca un luogo sicuro per la propria vita e richiedere una assunzione di responsabilità sia personale che pubblica e politica, ci ricorda che per avere il respiro del mondo bisogna avere i piedi per terra.

Ma riprendendo il materiale del nostro seminario a distanza di tempo, ci sembra anche che la nostra interazione con quelle relazioni, raffigurata ma non esaurita dalle sei domande programmate che sono state proposte, valga la pena di essere riproposta, non solo come memoria d’archivio del Seminario, ma anche come occasione, forse, per riprendere qualche riflessione. Pubblichiamo dunque le sei domande così come le persone che le hanno proposte le hanno scritte e le rilanciamo affichè singolarmente o nei gruppi delle zone, chi lo deisdera possa riprenderle.

Buona riflessione, dunque, …. A partire dai piedi!


 Le sei domande

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Giuditta Bonsangue

Per la prima questione ho riflettuto a partire dalla realtà che vivo la quale è debitrice del lavoro, sacrificio, coraggio di tante donne che mi hanno permesso di percorrere la strada della teologia non ovvia ma in modo più agevole.  La simbologia di riferimento e che ha permesso di identificare lo spirito di queste donne, risponde ancora alle realtà che si stanno costruendo ai nostri giorni? Sarebbe necessario lavorare su simboli che permettano non più di rispondere all’affermazione dell’identità della figura femminile quanto a come essa si articola nella reciprocità ontologica con la figura maschile?

La seconda questione nasce da una esperienza  a Londra, dove seppi che colui che svolgeva le mansioni di segretario del vescovo cattolico era una donna, se non sbaglio non religiosa. La notizia mi ha colpito, abituata ad un contesto italiano in cui certi ruoli sono occupati solo da persone dello stesso sesso. Ma la spiegazione fu ovvia in quanto in un contesto dove diverse chiese convivono, è necessario mostrare non troppe differenze, dove è possibile. Come si può riflettere a partire da questo esempio un vissuto ecumenico tra differenti chiese?

 

Lucia Vantini

L’accusa rivolta alle donne di essere responsabili dell’attuale crisi valoriale si è trasformata nella forma ma non nell’intenzione?

La questione che vorrei porre parte da una considerazione ben riconoscibile in entrambe le relazioni: le donne sono spesso accusate di essere le responsabili della rottura con la tradizione e del conseguente disorientamento che affligge il presente. Quest’accusa – che a mio avviso non va affatto respinta e che anzi deve essere assunta proprio per motivi di riconoscenza verso le molte che hanno lottato contro quell’androcentrismo simbolico, sociale e culturale che minava (e mina) la libertà di tutte – è secondo me mutata nella sua fisionomia: oggi le donne che appaiono più inquietanti sembrano quelle che si collocano in una prospettiva di genere. Portando alla luce gli stereotipi di cui una cultura si serve per simbolizzare e declinare il “maschile” e il “femminile”, esse finirebbero per nominare la differenza sessuale in modo poco netto. In tal modo, avrebbero pericolosamente evocato il fantasma dell’androgino, che si aggira per l’Europa attentando al futuro dei nostri figli e delle nostre figlie. La colpa che viene loro ascritta è dunque quella di far confusione, di condurre a un mondo in cui non si riesce più a riconoscere che cosa sia “maschile” e che cosa sia “femminile”. Va rimarcato che tra questi critici ci sono sia uomini sia donne.

Questo spostamento chiede urgentemente un lavoro linguistico e pratico, perché si rischia di perdere l’eredità positiva dei femminismi. Si tratta di mostrare che quest’accusa è antica come il mondo ed è mossa dallo stesso immutato intento di sempre: impedire qualunque discorso che riveli la parzialità dei simboli, delle leggi, delle prospettive vigenti. Non è un caso che Creonte, sfidato nel suo potere da Antigone, sfoderi proprio lo stesso argomento: «non sarei più maschio io, lei sarebbe maschio se questa prepotenza passasse senza pena». Egli nomina una confusione sessuale per coprire un’evidenza per lui inaccettabile: la sua legge è parziale e non può arrivare dappertutto. Mi chiedo: come si può far luce su questa maschera sotto la quale si nascondono le stesse paure di sempre, quella della pluralità e della parzialità?

 

Adriana Valerio

A partire dall’analisi delle “rotture” e dalla necessità dell’inculturazione che ripensa le categorie antiche dell’antropologia teologica, dell’ermeneutica biblica e dell’apparato teologico, mi chiedo se non sia necessario ripensare profondamente un’ulteriore categoria: la Chiesa, così come essa si è configurata nella storia.

Ma quale Chiesa? La soluzione gerarchica e monarchica dell’istituzione cattolica che si è venuta definendo è l’unica possibile?

Quella che Alexandre Faivre chiama «la istituzionalizzazione per inferiorizzazione» è la forma che si è affermata nel cristianesimo attraverso un lungo processo di assimilazione e di adattamento con le categorie gerarchiche e politiche delle culture che lo hanno attraversato (Alexadre Faivre, Naissance d’une hiérarchie, Beauchesne, Paris 1977). Se il movimento cristiano, nato in seno al giudaismo, è entrato in contatto con l’ellenismo, attraverso il quale ha acquisito la matrice concettuale della filosofia greca, e con la romanità, dalla quale ha assunto la categoria giuridica di religio, bisogna chiedersi quanto la dimensione istituzionale della Chiesa, seppure storicamente legittima, possa considerarsi unica e assoluta.

La comunità cristiana, infatti, si è declinata diversamente nella storia e non tutti i modelli hanno uguale valore, essendo analogici e, pertanto, inadeguati e perfettibili (cfr. Avery Dulles, Modelli di Chiesa, Il Messaggero, Padova 2004; ed. or. 1974). La Chiesa tradizionale era considerata immutabile e permanente, dalla forma stabile e monolitica, società perfetta, gerarchica e ineguale. Può ancora oggi, dopo il Vaticano II e le spinte verso le democratizzazioni dei popoli, essere considerato questo un modello assoluto, credibile e accettabile?

Vi domando:

  1. se non occorra applicare i processi di inculturazione alla struttura della Chiesa e
  2. se non occorra porsi domande di tipo “politico”, per non essere ingenue nell’affrontare le questioni che, ancora oggi, credo ruotino intorno alla questione del potere e della sua gestione. Noi donne siamo ancora la materia su cui il potere si esercita.

Andare alla radice del potere significa analizzare tre livelli: simbolico (i riti, le parole); economico (chi detiene il potere economico nella Chiesa?) e giuridico (chi decide e ha autorità?).

 

Federica Cacciavilani

Il mondo della Vita Religiosa apostolica è uno dei mondi del ‘modello tradizionale’ in cui le donne si sono –o sono state- inserite, quello della verginità consacrata.

Molti sono stai i mutamenti, le transizioni vissute da questo particolare ambiente di vita, in particolare dopo il Concilio Vaticano II, passando dagli ‘Istituti di Perfezione’, cioè dalla completa differenziazione dalla vita ‘del mondo’, al lasciarsi interpellare con forza dalle vite e dalla storia del mondo, immerse in esso/e, alla sequela di un Cristo itinerante, che chiede a tutti/e un’identità flessibile, complessa.

All’interno di questa mia/nostra vita cristiana-consacrata-religiosa c’è un movimento di rinnovamento di tipo personale (mente, cuore, corpo) e strutturale (comunità, congregazioni, chiese) che come donne stiamo facendo.

Ci scontriamo però con una forte inferiorizzazione della visione di questa vita sia  all’interno (le suorine, le zitelle…) che all’esterno  (fallite, problematiche…) della chiesa.

Ciò viene perpetrato certamente anche da alcune  consuetudini  di  vita religiosa, ma soprattutto da simbolizzazioni negative.

La gerarchizzazione determina l’inferiorizzazione, a livello di immagine socio-ecclesiale e di percorsi relazionali.

Eppure siamo donne religiose che non vivono dell’8 per mille, che come tante altre donne abbiamo vissuto, oltre alla rivoluzione sessuale, la rivoluzione economica dell’indipendenza e dell’autonomia: ma non per se stesse, né solo per la propria famiglia/comunità/parrocchia, chiesa, bensì per la comunità allargata dei poveri e delle povere, dei fratelli e delle sorelle più in difficoltà.

Le domande sono due:

1- La non-inferiorizzazione può passare, a livello sociale, culturale ed ecclesiale, ‘solo’ dall’accesso all’ordinazione presbiterale?

2- La non-inferiorizzazione può passare anche dal vivere – con-parole ( cioè dando voce alle motivazioni, all’esprimere concetti, al celebrare) esistenze alla sequela di Cristo, a partire dalla condivisione profonda con il popolo di Dio, a partire dagli ultimi/e?

 

Rita Torti

Ho l’impressione che delle consapevolezze e delle acquisizioni ripercorse e rilanciate dalle relazioni di Parmentier e Legrand, e suscitate negli scorsi decenni dalle nuove domande delle donne, poco sia passato nella coscienza comune della Chiesa cattolica. Perciò oggi la teologia e la pastorale sembra abbiano poco da dire alle donne e agli uomini reali, ai quali spesso non resta che vivere con la coscienza di genere da una parte e la fede dall’altra.

Una delle conseguenza di questa ricezione incompiuta mi pare si possa vedere nella polarizzazione che vede da una parte il disinteresse riguardo alle relazioni fra donne e uomini (penso ai vari documenti del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, al silenzio sulla violenza di genere, all’impaccio con cui ci si pone “all’ascolto delle donne”, all’occultamento della questione maschile), e dall’altra l’enfatizzazione della differenza, la ri-costruzione di significati del maschile e del femminile sulla base dell’ “osservazione” – in realtà si tratta di narrazioni – del corpo, del rapporto sessuale, della fisiologia del cervello.

Da qui due domande:

  1. C’è un modo di “dire” il corpo sessuato senza che questo dire diventi una gabbia, una prescrizione, una nuova forma, insomma, di essenzialismo?
  2. Dal punto di vista educativo, credo che sia molto importante il lavoro di decostruzione degli stereotipi di genere. Ma come rispondere a chi, pur condividendo questa linea, chiede anche una educazione di genere “in positivo”?

 

Elisabeth Green

Tracciando l’apporto delle donne alle chiese nell’ultimo mezzo secolo, Parmentier ha fatto menzione ripetutamente della paura del cambiamento da parte delle chiese. Non vi è solo la paura che le donne prendano il potere ma, poiché la donna è rivelatrice di crisi  ed è stata costruita come l’Altro per eccellenza, la paura delle differenze tout court. Non potremmo cominciare (!) a ribaltare la prospettiva dalla quale guardiamo l’argomento per dire (insieme a donne di altre discipline come la sociologia o la psicologia) che ormai la questione non sia più femminile (delle donne) bensì maschile (degli uomini)? (Ciccone)

Come mi sembra abbia detto Lucia, “una cosa manca” agli uomini nelle chiese e al pensiero/prassi da loro prodotti, l’assunzione della propria parzialità. Questa mancata assunzione della differenza maschile inficia il pensiero di Légrand, l'”umano” da lui caldeggiato nasconde (come sappiamo) un maschile non detto mentre un maschile al di fuori della stereotipia patriarcale non è  tematizzato.

Personalmente  considero questo stato di cose grave per le chiese in quanto mi sembra che la capacità di mettersi in questione lasciandosi interrogare da Gesù e il suo comportamento anti-patriarcale sia al cento del messaggio cristiano.

Sono felice di dialogare con i teologi a patto, però, che assumano una riflessione critica sull’universale neutro come punto di partenza se no ho la sensazione che siamo sempre punto e a capo!