La teologia alla sfida della decolonizzazione. Una riflessione della rivista Concilium (in Adista)

DOC-2528. BRESCIA-ADISTA. Se il colonialismo «ha lasciato un’ombra sulle società contemporanee» – se anzi, come alcuni sostengono, non è mai stato superato, continuando «a governare il mondo sotto il nuovo nome di globalizzazione» – in teologia la ricerca della decolonialità si configura proprio come «un processo permanente», sulla base della «memoria della sofferenza storica di soggetti emergenti (indigeni, afrodiscendenti, donne, minoranze, poveri) che lottano per la rilettura e la soppressione di tradizioni teologiche egemoniche». È quanto evidenzia il teologo brasiliano Paolo Suess nel numero 2/13 della rivista internazionale di teologia Concilium (edita dalla Queriniana di Brescia), dedicato appunto al tema “Teologia postcoloniale”, a cominciare dall’impatto del colonialismo sulla teologia e sui concetti teologici. Dopo l’inversione del “cristianesimo messianico” (quello della primitiva comunità cristiana ostile all’impero ellenistico-romano e da questo perseguitata) nella cristianità trionfante – con la corrispondente trasformazione del messia da “servo sofferente” a pantoktátor, il trasferimento nel culto cristiano di molti elementi della cultura e dei riti greco-romani e il successivo avvento, con il Sacro Romano Impero germanico, di «uno Stato fondato sulla sacralità della Chiesa cristiana» – si produce, a partire dalla fine del XV secolo – come evidenzia il teologo e filosofo della liberazione Enrique Dussel nel suo intervento sulla “Decolonizzazione epistemologica della teologia” -, una seconda inversione: «oltre che cristianità (prima inversione), sarà ora una cristianità centrale, imperiale, dominatrice di colonie oppresse nel nome del vangelo del Crocifisso». Con il risultato che, con l’affermazione simultanea della Modernità, dell’eurocentrismo, del colonialismo e del capitalismo, «la cultura europea e la civiltà come tale, di fronte alla barbarie delle altre culture», appaiono «una sola e medesima cosa». A giudizio di Dussel, peraltro, sarebbe proprio «la teologia della cristianità latino-germanica metropolitana (e colonialista)» a costituire «la quintessenza, la colonna vertebrale dell’eurocentrismo»: persino i grandi teologi del XX secolo, come de Lubac, Rahner, Congar o Moltmann, «erano – e non potevano non esserlo – eurocentrici». Così, quando una comunità di teologi, come nel caso della teologia della liberazione latinoamericana, «ha assunto in gruppo la responsabilità di creare una nuova teologia non colonizzata», mettendo mano «alle scienze sociali critiche che la teologia eurocentrica non aveva mai usato», come il marxismo e la psicoanalisi, questa nuova teologia «venne osteggiata non tanto per il suo contenuto, quanto per la pretesa di pensare a partire dal di fuori dell’Europa e contro l’Europa moderna, capitalistica, metropolitana, eurocentrica, maschilista, razzista, ecc., che aveva confuso la propria particolarità con una pretesa di universalità». Dopo aver mosso i primi passi nella seconda metà del XX secolo, la decolonizzazione epistemologica della teologia, conclude Dussel, occuperà tutto il XXI secolo, ponendosi in un nuovo spazio «da dove sarà necessario rifare tutta la teologia», fino a «superare la colonialità e la Modernità capitalistica invertendo la cristianità per ritornare a un cristianesimo messianico profondamente rinnovato». Su una prospettiva africana di teologia postcoloniale si concentra invece il teologo domenicano camerunense Eloi Messi Metogo (curatore del numero insieme alla teologa tedesca Hille Haker e al teologo brasiliano Luiz Carlos Susin), del cui intervento riportiamo qui di seguito ampi stralci. (claudia fanti)