“La teologia postcoloniale nel contesto africano” di Eloi Messi Metogo in Adista

IN DIFESA DELL’AFRICANIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO

Per quanto ne sappiamo, in Africa non si parla di “teologia postcoloniale”. Ma attraverso le correnti dell’adattamento, della indigenizzazione, dell’inculturazione, della liberazione, della ricostruzione, della teologia femminista ecc., si può dire che è in atto un reale sforzo di decolonizzazione della teologia cristiana. E nella celebre opera di Meinrad P. Hebga, Emancipation d’Eglises sous tutelle, che ci servirà da riferimento principale (…), si trovano delle espressioni che denunciano nella missione forme di «colonialismo mascherato da religione»: «cristianesimo postcoloniale in Africa»; «imperialismo missionario»; «colonia religiosa»; «neocolonialismo missionario cristiano».Nel discorso storico di Paolo VI a Kampala (Uganda) nel 1969 (…), la professione della fede cristiana è presentata come già elaborata; è ormai il sistema di riferimento per ogni adattamento culturale. Le definizioni dogmatiche «sono funzione della cultura occidentale o orientale». «Nessuno – scrive Hebga – ammette che noi possiamo formularle nei nostri linguaggi poco evoluti, prelogici, come dice L. Lévy-Bruhl. Occorre dunque impararle a memoria in latino, in francese, in inglese o in ogni altra lingua di cultura internazionale». Si ha l’impressione che la Chiesa universale non si attenda dall’Africa «niente di originale nell’ambito della teologia»: «Forse l’espressione dottrinale che ci concedono gli europei consisterà nell’infiorettare le nostre omelie e le nostre catechesi di proverbi gustosi o di immagini molto semplici, improntate al nostro folclore di uomini della natura». I missionari hanno dato il meglio che essi pensavano di avere, e non si dovrebbe loro rimproverare il fatto di avere trasmesso il cristianesimo nella loro propria cultura. Il problema è che essi hanno agito «come se la elaborazione teologica della rivelazione non abbia dato alla dottrina cristiana un carattere occidentale o orientale estraneo a questa rivelazione stessa». La relazione ufficiale del sinodo del 1974 sulla evangelizzazione dichiara: «Noi dobbiamo offrire agli africani, così come a tutti, gli elementi puri del cristianesimo e in seguito rivestirli di cultura africana. In effetti non esiste un cristianesimo africano, come non esiste un cristianesimo europeo». Il gesuita camerunese è indignato: «E sbalorditivo! Le filosofie greche o germaniche che fanno corpo con l’espressione della fede sono forse degli “elementi puri del cristianesimo”? Non si comprende come, invitandoci ad africanizzare il cristianesimo, si comincia con l’identificarlo con la cultura occidentale?».È necessario che gli africani esprimano le loro relazioni con Dio in un linguaggio che non sia estraneo alla loro cultura. La ricerca protestante gode di maggiore libertà rispetto alla ricerca cattolica. Perché non ritornare alla modalità apostolica di fondare Chiese locali, evitando di prolungare all’infinito la fase di tutela? L’appello per una moratoria, lanciato nel maggio 1974 dalla Conferenza delle Chiese di tutta l’Africa (CETA) è stato mal accolto, soprattutto da parte cattolica: vi si sospettava una messa in questione dell’unità e della universalità della Chiesa, allorché si trattava di sospendere «l’invio di missionari e di sussidi in Africa per cinque anni, affinché le Chiese africane raggiungano l’età adulta e assumano le proprie responsabilità». Per Hebga sarebbe anche la fine della missione a senso unico, «per ritornare alla missione multilaterale, apostolica». Gli africani sono prigionieri di un modello di cristianesimo creato per loro da altri, «definitivamente strutturato all’estero in tutti i suoi aspetti: dottrinale, liturgico, giuridico e disciplinare». Senza rifiutare la collaborazione tra le Chiese, la moratoria cambierebbe le strutture che secretano e perpetuano la dipendenza.In fin dei conti, Gesù Cristo «è la sola norma della nostra fede». Egli sta al di là dei dogmi e delle formule di fede. Il cristianesimo «non è un diritto canonico, un corpo di leggi destinato al buon funzionamento di una veneranda istituzione», né un insieme di formule di preghiera e di riti liturgici: «La legge di riferimento unica e assoluta è Gesù Cristo. Egli è la via che conduce alla vita (…)». È dunque normale che tutti i popoli della terra cantino le lodi di Dio nelle loro lingue. Non si tratta di separare Gesù Cristo dalla sua Chiesa, né di rifiutare la veneranda tradizione dei padri, dei dottori e dei riformatori. Semplicemente, gli africani vogliono avere saldamente in mano i loro affari religiosi e cercare Dio alla loro maniera. La teologia africana deve liberarsi del mimetismo e del fascino dei maestri occidentali: «Il teologo africano non deve più essere valutato in funzione della sua perfetta conoscenza del pensiero di Tommaso d’Aquino, di Martin Lutero, di Karl Barth o di Karl Rahner, pensatori europei, ma in funzione del suo sforzo nell’approfondire ed esprimere la parola di Dio». (…).La partenza dei missionari stranieri permetterà finalmente agli africani di incontrarsi, di parlarsi e di cercare delle soluzioni vere ai loro problemi. Essi lasceranno cadere le opere ingombranti che ostacolano la loro libertà di riorganizzare i ministeri. La priorità spetta qui alla predicazione, primo compito apostolico relegato in secondo piano, se non trascurato, a vantaggio di interminabili sedute in confessionale o di numerose messe domenicali. Affinché suscitino «un vivo desiderio, una sete di comunione» tra fratelli e sorelle e con Dio, scrive Hebga, «le assemblee eucaristiche dovrebbero essere più rare, e il loro ritmo dipendere dai bisogni e dal fervore di una data comunità. Le si preparerebbero attraverso una predicazione intensa, scambi numerosi, gesti di riconciliazione tra sposi, tra genitori o vicini, visite ai malati, ai prigionieri, aiuti prestati alle vedove e agli orfani. La comunione eucaristica sarebbe pienamente sacramento, vale a dire il segno e l’éspressione dell’unione dei cuori. In Africa potremmo utilizzare abbondantemente il rituale dei pasti sacri che ci sono familiari in occasione dì matrimoni, nascite, funerali».Spetta alle comunità di base decidere nuove strutture ecclesiali. Per questo si presterà attenzione alla formazione dei laici, alla partecipazione delle donne contro ogni forma di misoginia, all’accesso dei giovani ai posti di responsabilità. Ci sarà bisogno di responsabili liberati dal sistema romano e vicini al popolo: «I cristiani africani sono diventati più maturi di quanto non pensiamo; i modi bizzarri di vestire non li impressionano più; molto, invece, la semplicità evangelica». Il popolo di Dio esige ormai «che i successori degli apostoli si considerino come gli specialisti riconosciuti della predicazione e della preghiera, e per nulla come dei governatori o sovrani di piccoli e medi principati […]. Vogliamo maestri della fede, persone che hanno meditato a lungo la parola di Dio e ci comunicano il frutto della loro contemplazione». (…). Se i teologi africani, cattolici e protestanti, approfondiscono la dottrina del corpo mistico e soprattutto vivono intensamente la comunione fraterna in Gesù Cristo, faranno progredire l’ecumenismo. Tocca ai cristiani, cattolici e protestanti, avvertire il bisogno dell’unità e della comunione fraterna, senza essere al traino di organismi stranieri: «Lasciateci pensare e vivere l’ecumenismo al nostro modesto livello, senza viaggi e congressi costosi, senza maratone di discorsi-fiume, senza cifre e bilanci impressionanti. Con l’aiuto di Dio, ne verrà qualche cosa per l’unità cristiana».Prima di esprimere il suo parere su punti sensibili che riguardano la liturgia, il diritto, la disciplina dei sacramenti, Hebga ricorda un vecchio adagio della sapienza cristiana: «Unità nelle cose essenziali, libertà nelle cose dubbie, carità in tutte le altre».Si sono condannati in blocco i riti religiosi tradizionali, anche quando i più frequenti e dunque i più importanti non si oppongono necessariamente alla fede cristiana. (…).Roma si oppone all’utilizzo, come materia eucaristica, di altro elemento che non sia il pane di frumento e il vino di vite. Ma queste “materie” non sono sempre reperibili, quando si è lontani dai grandi centri urbani, e non si vede come possano «rappresentare il “frutto della terra e del lavoro dell’uomo” nelle zone dove non si conosce la coltura del grano e della vite» (J.-M. Ela). Questo problema non è aggirabile: «Gesù Cristo – scrive Hebga – ha forse legato il mistero del suo corpo e del suo sangue al pane di frumento e al prodotto della vite, che non si trovano sotto tutti i climi?». C’è un altro problema connesso a questo, ossia la situazione di penuria eucaristica, legata alla mancanza di preti. Alcuni vescovi africani hanno chiesto a più riprese che degli uomini sposati (catechisti e altri responsabili di comunità), i quali ricoprono già l’incarico dell’annuncio della Parola e della costruzione della comunità, siano ordinati per presiedere l’eucaristia e impartire l’assoluzione (…).. Perché non tener conto, nella pratica del sacramento della riconciliazione e della penitenza, della dimensione comunitaria della riconciliazione, cara alle tradizioni africane, invece di privilegiare la confessione individuale? Si ha l’impressione che l’assoluzione collettiva non sia di fatto più autorizzata. Non è possibile liberare i cristiani «da una nevrosi di purificazione individuale che non perviene necessariamente alla purezza del cuore?».Si è potuto dire che i missionari hanno combattuto le loro battaglie più accanite e più disperate a proposito del matrimonio. (…). È tempo di uscire dalla dannosa deviazione che «fa della castità il primo comandamento di Dio, mentre l’ingiustizia, l’odio, la disonestà, l’avidità, la crudeltà non ci toccano affatto». Non è forse pastoralmente più corretto differire il matrimonio cristiano piuttosto che impedire ad ogni costo ai giovani la convivenza, costringendoli a ricevere il sacramento? Ciò ridurrebbe il numero delle separazioni e dei divorzi. Secondo i costumi africani, lo stadio sperimentale del matrimonio non ha nulla di indegno né di anormale; significa al contrario che si prende sul serio un impegno che non è a tempo, ma per la vita. (…). La pastorale delle situazioni coniugali irregolari deve essere rivista alla luce del vangelo, per portare aiuto a persone in situazioni di difficoltà e manifestare loro l’amore misericordioso di Dio. Una Chiesa che ignora, disprezza o umilia le persone in nome dei suoi diritti sacri, della sua autorità e del suo prestigio non è la chiesa di Gesù Cristo.La Chiesa e i sacramenti sono per, l’uomo, e non l’uomo per essi, poiché Gesù è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.

PER UNA DECOLONIZZAZIONE DELLA TEOLOGIA

Si può dire che non c’è stato ancora un confronto sereno e leale tra il cristianesimo e le tradizioni spirituali africane. (…). L’istituzione, nelle facoltà di teologia africane, di cattedre di teologia tradizionale, dove si studierebbero le religioni africane in quanto tali senza preoccuparsi di confrontarle con il cristianesimo, favorirebbe l’emergere di una teologia cristiana africana decolonizzata. Tali ricerche permetterebbero di mettere in luce i principi organizzatori di «ciò che resiste» al cristianesimo missionario borghese nelle Chiese indipendenti o afro-cristiane, e che Eboussi Boulaga chiama la «spiritualità africana» .Questa, scrive, consiste in «una determinata maniera di autocomprendersi, di vivere la propria relazione con la terra, con i vivi, con i defunti». Lo spirituale non si aggiunge dall’esterno alla trama della vita: è invece l’integrazione e la trasformazione, da parte dell’uomo, dei condizionamenti fisici, economici e sociali della sua esistenza, che fanno di lui una persona, ossia membro di una comunità di destino che include i vivi e i morti. Contrariamente alla concezione occidentale del peccato come offesa deliberata a un legislatore situato al di sopra della vita, ogni trasgressione, cosciente o meno, coinvolge il destino e la responsabilità di tutti; e deve essere riparata da tutti e per tutti: «Non c’è né colpevole né capro espiatorio»; «non c’è “riparazione vicaria”». La colpa è il male che distrugge la comunità, isola le persone le une dalle altre e «inghiotte l’individuo nel suo turbine e nella sua notte». L’importante, secondo Eboussi Boulaga, è ristabilire la comunicazione, la qualità della vita attraverso la rimessa «in circolazione perenne e festosa dei prodotti e dei beni». La morte stessa è integrata nel circuito dello scambio e della comunicazione «nelle modalità della gioia, della compensazione e delle sostituzioni simboliche». Sono i vivi che parlano della morte e che le danno un senso. Così, il defunto continua a rimanere presente nella comunità, in una maniera «reale, personale, ma mediata negli altri che parlano di lui, attraverso di lui e per lui». A loro volta i morti diventano delle forze che strutturano la comunità, «spiriti che sono i precettori dei vivi e loro guardiani». Un tale mondo ignora il dualismo metafisico-cosmologico, l’individualismo, l’ossessione della colpa e l’angoscia per la salvezza.Orbene, il cristianesimo missionario borghese ha instaurato delle dissociazioni isolando l’individuo dalla società, staccandolo dalle condizioni originarie, date in precedenza e costitutive dell’esistenza umana. Si arriva così a interrogarsi dottamente sul rapporto tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e la creazione, tra la legge e il vangelo, tra la natura e la grazia, tra la fede e i sacramenti, tra la coscienza e l’istituzione ecc. «L’attività teologica si perde nel cercare di superare le antinomie stabilendo tra di esse delle passerelle verbali». Ributtato nella sua trascendenza, fuori dal mondo, Dio non può più esservi presente se non mediante una intrusione violenta, tramite il miracolo, il prodigio, la “rivelazione”, di cui nulla garantisce che non finisca per funzionare come un principio di violenza culturale e politica. Se il cristianesimo è celebrazione della vita vittoriosa sulla morte, è ovvio che, scrive Eboussi Boulaga, «la colpevolizzazione previa e il sentimento della colpa come offesa a Dio non sono la condizione necessaria universale per entrare nella intelligenza pasquale. I peccati sono rimessi perché il regno di Dio è qui, prima della presa di coscienza psicologica, prima delle angosce, dei rimorsi e dei tormenti della “coscienza”». Abbiamo, osservato che per la spiritualità africana Dio non è un legislatore situato al di sopra della vita. È per il fatto che la colpa distrugge la comunità che essa «“riguarda Dio”, nella sua “trascendente” immanenza nella vita. Altrimenti, come comprendere che l’uomo possa offendere il Totalmente Altro, l’Assoluto immutabile? Attraverso questi antropomorfismi non si aiuta nessuno a prendere sul serio la colpa, la redenzione […]».Altro punto importante per la decolonizzazione della teologia è la dissociazione tra la fede e l’amore. Esiliata dal mondo della loro esperienza comune, la fede dei convertiti non li riunisce in una comunità di mutuo aiuto e di riconoscenza reciproca. Ciò che li unisce è il riferimento alla dottrina e a quelli che la predicano. La partecipazione agli stessi riti e l’adesione alle stesse verità di fede non creano più solidarietà tra gli evangelizzatori e gli evangelizzati: non escludono il disprezzo dei convertiti, la schiavitù e la discriminazione razziale. La dissociazione borghese tra la fede e l’amore continua nelle chiese presiedute da responsabili africani. (…).Lo si è già osservato, la religione vissuta è la stessa ovunque, a monte delle costruzioni teologiche. Essa è per la circolazione permanente della vita, attraverso lo scambio dei prodotti e dei beni, la comunione tra vivi e defunti, la lotta contro le forze che destrutturano la comunità. In fondo, l’espressione “religione tradizionale” è un pleonasmo: ogni religione è “religione della tradizione”, ossia «l’eredità che ci tocca in sorte sotto la forma di costumi e di modi di vivere da umani, da persone vere». La religione è «la trasmissione della vita come eredità». Una teologia cristiana decolonizzata, in Africa e altrove, non nascerà forse che dal prendere sul serio questa esperienza universale.
da: Adista Documenti n. 22 del 15/06/2013