Editoriale: Più largo respiro [8 Luglio 2013]

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di Cristina Simonelli

Sorella Maria dell’Eremo di Campello in una lettera a Pio XII del 21 giugno 1942 scriveva una di quelle frasi destinate a riprodursi in svariati contesti: «Santità, ho bisogno di più largo respiro». Facciamo oggi nostra la sua espressione, sullo sfondo del monumento di Lampedusa, porta d’Europa, che evoca orizzonte e casa, speranza e timore: per le vicende di tutti i paesi che sul Mediterraneo si affacciano, prima di tutto. Ma anche speranza e trepidazione per quello che significa per la chiesa cattolica la presenza di papa Francesco presso il Centro di identificazione ed espulsione dell’isola, con la celebrazione eucaristica in forma penitenziale e il calice fatto del legno dei barconi. Questo insieme all’assicurazione della recente omelia in S. Marta sul necessario cambiamento delle «strutture antiche e caduche», linguaggio e  progetto da tanto invocato: è largo profondo respiro.

Rispetto a tutto questo si poteva sperare che anche la l’enciclica sulla Fede potesse inspirare più largamente, proprio per quella «luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione» (Lumen Fidei 4). Ascolto e visione, conversione e ricerca dalla nuance agostiniana, riflessione e umiltà percorrono il documento, che attende tuttavia ancora l’afflato di linguaggi diversi e di una prospettiva meno difensiva, nei confronti della modernità (n. 2; 25) e dei suoi difetti, ma anche nei confronti della teologia (n. 36). Più ariosa risultava, ad esempio, l’osservazione del 1976 sul rapporto fra ricerca teologica e magistero:  «Nell’esercitare i compiti del magistero e dei teologi non raramente si riscontra qualche tensione […] Non è da sperare che tale tensione possa essere mai pienamente superata [… ] Dovunque c’è vera vita lì c’è pure una tensione. Essa non è inimicizia né vera opposizione, ma piuttosto una forza vitale e uno stimolo a svolgere comunitariamente e in modo dialogico i compiti propri di ciascuno» (CTI – Commissione teologica internazionale tesi 9 – EV 5, 1323).

In ogni caso avere vino nuovo in otri nuovi conosce lo scarto, l’interruzione subitanea della conversione, ma è anche cammino, processo dinamico che chiede – e parafraso ancora parole di sorella Maria – pane delle madie di tutti. Più largo respiro è perciò forse anche accogliere l’invito a tradurre/trasporre una tradizione per riceverla in molteplici vive rifrazioni: «un certo iato crea le condizioni perché una tradizione risorga come nuova […] abbiamo bisogno di ritornare sullo iato che rende possibile la traduzione ed esaminare che cosa potrebbe significare, per una risorsa etica attinta dal passato, inserirsi in un ambito di traduzione insieme a risorse che vengono da tradizioni distinte e assai complesse». La qual cosa si potrebbe dire certo anche diversamente: ma ha un particolare significato proporla attraverso le parole di Judith Butler (Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, Cortina 2013, 13-14) tratte da un volume in cui ebraicità, etica della nonviolenza e pratica politica assumono tratti di profonda spiritualità.

Mi piace segnalarlo non solo per la sua vicinanza, dato anche il retroterra biblico, a temi e linguaggi familiari – si pensi a tradizione e traduzione, ma anche a comandamento, esodo, dispersione, interruzione che percorrono lo studio – ma anche perché offre un quadro dell’autrice ben diverso dallo stereotipo cui è spesso relegata in ambito confessionale, come «madre di tutte le eresie di genere».  Si vogliano o meno riconsiderare anche i precedenti lavori sulla critica della violenza e sul genere alla luce della prospettiva qui esposta nell’ottica della teoria critica (Butler ha ricevuto nel 2012 il premio Adorno!), il libro può essere una buona lettura estiva, per poter magari assentire alla confessione di Judith: «il testo è reso obliquo dalla mia formazione personale, ma intende documentare quello che si può e si deve fare della propria formazione, come essa debba essere ripetuta in modi nuovi, e i momenti in cui un allontanamento dalla propria formazione diventa eticamente e politicamente obbligatorio, per ragioni interne ed esterne a quella stessa formazione. Questo dunque: il mio sintomo, il mio errore, la mia speranza…» (p. 37).

Infine, non c’è dubbio,  il largo respiro che reciprocamente ci auguriamo è anche quello di un periodo di vacanza: quanto meno diversamente attivo, diversamente connesso, diversamente spirituale. In ogni caso felice.