Lavoro o no? Crisi dell’Europa e nuovi paradigmi della cittadinanza


Giornata di studio promossa dalla redazione di IAPh Italia

Lavoro o no? Crisi dell’Europa e nuovi paradigmi della cittadinanza

mercoledì 21 marzo Sala delle Bandiere, via IV Novembre 149, Roma.

 

Ho scelto per il mio intervento la forma del blog. Lo scritto risulta composto da due post: uno di apertura “L’emancipazione faceva paura”; uno di chiusura “ Ma se io metto al centro del mio pensare il mio corpo fertile” : E da cinque commenti.

 

pina nuzzo   L’emancipazione faceva paura

 

L’emancipazione faceva paura – non solo agli uomini – e per l’Udi fu un vero e proprio atto di coraggio, a metà anni ’50, metterla al centro della sua politica; fu una scelta che incontrò difficoltà ed ostacoli oggi inimmaginabili tra le stesse donne e pure a sinistra. C’è voluta tanta volontà per non mollare, ma faticare due volte era sempre meglio che morire da casalinghe. Per questo lottarono le nostre madri e le nostre nonne.

 

La denuncia del doppio lavoro delle donne diventa uno dei temi su cui si sviluppa l’azione dell’Udi che vuole estendere la consapevolezza, tra le donne prima di tutto,  che il lavoro casalingo è lavoro e che nessuna ne è esente. Nel 1962 l’Udi organizza una manifestazione per chiedere la pensione alle casalinghe. Quella pensione non fu mai ottenuta, ma una così massiccia presenza di donne, uscite di casa per la prima volta, con i volti e le mani segnati dalla fatica, segnalava che una nuova coscienza si stava facendo strada. Commuove ancora, ed è diventata un simbolo, l’immagine delle donne con il grembiule da cucina davanti a Montecitorio.

Gli anni successivi, fino al ’68 ed oltre, rappresentano  per l’Udi quella lunga fase, detta “delle vertenze”, con la quale affronta le tematiche dell’occupazione e del lavoro casalingo, soprattutto rivendica una politica dei servizi sociali per rendere sostenibile la condizione di doppio lavoro. Senza però mettere ancora in discussione i ruoli di genere.

Gli anni 70 sono gli anni del femminismo e sono quelli in cui io arrivo all’Udi. L’associazione continua imperterrita a impegnarsi sui suoi terreni di sempre: i servizi sociali, il diritto di famiglia, la scuola, il lavoro. Cerca però di farlo con una progettualità nuova, sollecitando, per esempio, l’iscrizione in massa delle donne alle liste di collocamento perché solo in questo modo si sarebbe visto che la condizione di casalinga in realtà occultava il desiderio delle donne di lavorare. Ho partecipato anch’io a questa iniziativa che non era affatto scontata né fuori, né dentro casa. Ci furono diverse polemiche e discussioni con i compagni e con i mariti, i quali sostenevano che stavamo bene a casa, che non ci mancava nulla. Andare a lavorare sembrava una pretesa, eppure molte di noi avevano studiato, ma questo non contava più una volta sposate. Quando, rifacendo la carta d’identità, sono passata dalla condizione di “studentessa” a “casalinga” mi sono arrabbiata con l’impiegato comunale e con mio marito che mi disse: “e che dovevano scrivere?”

Iscriversi alle liste di collocamento era dunque una sfida dentro casa e un atto politico attraverso il quale le donne entravano nel mercato del lavoro Ma richiedeva anche un certo coraggio perché voleva dire accettare il primo lavoro utile, in genere lavori ‘per maschi’. Ricordo ancora la prima donna che a Modena venne assunta in questo modo: si chiamava Italia, era molto giovane e fu chiamata a fare il muratore. La sua prima richiesta, sostenuta pubblicamente da noi dell’Udi, furono i servizi igienici.  L’ingresso di una donna in un cantiere metteva in evidenza che spesso i luoghi di lavoro erano carenti di servizi anche per gli uomini, potrei dire: erano carenti e basta.

Su casi concreti come questo l’Udi avviò incontri con i sindacati per agevolare l’inserimento delle donne nei settori a mano d’opera prevalentemente maschile per chiedere una formazione professionale adeguata e una nuova organizzazione del lavoro. Questo ha favorito l’ingresso di molte donne nelle fabbriche metalmeccaniche e nell’edilizia.

Per la cronaca: chiamata a fare la muratora, dissi di no. Ufficialmente perché avevo un bambino piccolo e non avrei saputo come organizzarmi nonostante il nido, in realtà i luoghi dove non c’è il segno della presenza femminile mi spaventano, mi appaiono pesanti. Certo, quando abbiamo avviato quell’azione politica, sapevamo che potevamo andare in situazioni difficili, ostili a noi. Ma io, con qualche disagio verso me stessa e verso le mie compagne, ho detto no.

nerella sala commented  

Le donne hanno sempre faticato, e tanto, ma certamente il lavoro retribuito è stato per noi lo strumento attraverso il quale accedere al mondo, finalmente emergere dal destino che ci ha viste per millenni nell’unico ruolo di riproduttrici della specie e vestali del focolare. Però il lavoro al quale abbiamo avuto accesso, così come l’intera organizzazione della società, sono stati pensati e attuati dagli uomini secondo la loro sensibilità. Noi siamo salite su un treno in corsa, con binari, stazioni, destinazioni già fissati e “come siamo tanto brave a fare” abbiamo cercato di adattarci, di non infastidire troppo, di entrare negli ingranaggi senza incepparli, anzi oliandoli. Non può essere stato che cosi, altrimenti come avremmo potuto accettare una legge che, con il “nobile” proposito di consentire il proseguimento dell’allattamento materno, concede alle donne i cui bambini hanno solamente tre mesi di vita una misera riduzione dell’orario di lavoro da 8 ore a 6?

 

Mi chiedo: perché la maternità non è considerata lavoro, il più importante lavoro che ogni generazione di esseri umani compie? e non mi riferisco esclusivamente alle donne, ma all’intera umanità. Sulla base di questo pensiero provo a formulare una proposta: perché non consideriamo  il periodo che va dalla nascita del bambino fino ad una anno di  vita, come un tempo di lavoro e formazione per la donna? Mi spiego: potremmo consentire alle mamme in tale periodo di allontanarsi dal lavoro, in quel tempo costruire per loro  percorsi di formazione specifici modulandoli secondo le esigenze decrescenti del bambino e ricollocandole alla fine del periodo, con capacità professionali ampliate.

 

Mi piace pensare che anche gli  uomini, i padri potessero  beneficiare di  tale opportunità . Chissà quante altre soluzioni potremmo inventare se solo ci fermiamo  a pensare.

 

pina nuzzo commented  

Qualche mese fa, per una serie variegata di eventi, mi sono ritrovata praticamente casalinga. Questo termine, associato a me, mi suona altrettanto bizzarro del termine “signora”, ma così è, a quanto pare. Comincia così un articolo di  Eleonora Mineo nel supplemento di settembre di “Leggendaria”. Parole simili e  pensieri simili li ho avuti tanti tanti anni fa quando sono diventata insieme  “signora” casalinga e madre.

A me pare di riconoscermi nelle parole di una donna di oggi, ma sicuramente le cose sono cambiate.  Intanto mi pare di capire che in una coppia si parla di più e si imposta una vita insieme. Nei  discorsi delle più giovani intorno a me, come nello scritto di Eleonora, colgo però uno spiazzamento, dovuto al riproporsi di ruoli di cui non sanno darsi ragione. Soprattutto in presenza di figli una donna si trova a portare ancora sulle proprie spalle il peso maggiore e a  dover ‘scegliere’, come tante prima di lei, nel rapporto con l’altro se pretendere una condivisione delle fatiche domestiche o lasciar correre per amore del quieto vivere. In ogni caso si tratta di un peso che non giova al rapporto, perché una donna si sente costretta ad una funzione materna o pedagogica verso il proprio compagno. Una volta era più frequente che una donna si assoggettasse contemporaneamente a queste due funzioni, adesso è sempre più difficile perché una donna vuole piacersi, vuole corrispondere all’immagine  che ha di sé, che ha costruito nel tempo con investimenti personali e della famiglia. Senza dimenticare l’investimento della collettività, dello stato.

 

In questa autorappresentazione ha un certo peso il prendersi cura delle persone che si amano, come della casa. Ma avere gesti di cura e di amore verso gli altri – figli o marito – da piacere si trasforma molto velocemente nell’occuparsi del benessere degli altri, dello spazio comune e della sopravvivenza stessa del nucleo familiare. Smontare questo quadretto è molto difficile perché avere cura dà un potere, seppure distorto. E sottrarsi a questo potere vorrebbe dire sottrarsi ad un piacere altrettanto distorto: controllare uno spazio circoscritto, la casa, per avere potere su relazioni circoscritte, la famiglia.

Infatti Eleonora scrive: “nel lavoro di cura c’è anche una componente di piacere e godimento, e una parte di potere che forse l’avvelena.”

Ha ragione, avvelena continuare a pensare che, in fondo in fondo, noi donne siamo più brave nella cura e pure nella manutenzione. Forse  è anche così, ma anche no.

Ma siamo pronte a fare una verifica?

 

marianna sassi commented  

In fabbrica non si è tutte uguali: le fisse sono di solito più grandi, sanno già dove andare e cosa fare, si muovono lente, sicure, parlano tra loro, riescono addirittura a ritagliarsi due minuti per il caffè o la toilette; quelle “a mesi” sono giovani, scattantissime,  sempre di corsa, attive, a volte, fino all’inutilità, prese dall’ansia che qualcuno nel vederle una frazione di secondo ferme possa scambiarle per gente che “non ha voja da fatigà” (nel dialetto della mia zona lavoro e fatica sono sinonimi). Tra le fisse vi è una forte solidarietà che si manifesta continuamente, quasi un senso di appartenenza; tra le ragazze tali sentimenti si ridimensionano, spesso l’errore di una è percepito come vantaggio dall’altra, soprattutto tra persone che svolgono lavori simili, perché anche tra chi è a mesi si crea una gerarchia poco celata che vede ai vertici coloro che usano le macchine e, a scendere, tutte le altre, quasi la catena di per sé generasse una scala sociale discendente.

 

Sono sempre stata conscia che per me quella era solo, appunto, un’ esperienza, sapevo che il mio destino era altrove, non avevo neppure preso in considerazione l’idea di stabilizzarmi lì. […] All’avvicinarsi del giorno di fine contratto tra le ragazze a mesi non si parla d’altro. Quando finalmente lo si vede comparire il foglio delle conferme lo sguardo delle ragazze è nervoso, si scorre con ansia la lista alla ricerca frenetica del proprio nome, quando finalmente lo si trova un bel sospiro di sollievo…per tre mesi lavoro sicuro… poi da capo.  È quel da capo che logora.

 

ilaria scalmani commented  

All’età di 59 anni a mio padre, dopo vari controlli ed esami, è stata diagnosticata una demenza frontotemporale. Per vari problemi nel giro di pochi mesi dalla diagnosi, ho dovuto cercare (e non è un compito semplice) un badante fisso che vivesse in casa con mio padre e che si occupasse di lui. Ma chiaramente il lavoro non era finito lì. Ho dovuto iniziare a gestire tutto quello che riguardava la vita intera di mio padre. L’aspetto economico (gestione conto corrente), legale (rapporti con gli avvocati) e pratico. Inoltre ogni volta che c’è qualche tipo di visita medica, pur avendo un bimbo di 2 anni, mi organizzo per poter andare a prendere a casa mio padre e portarlo dal medico e fare questi tipi di spostamenti in una grande città come Roma equivale a dire passare il pomeriggio o la mattinata in macchina. Ci sono poi altre  cure di cui necessita come quelle di andare a comprare qualche capo di abbigliamento quando gli serve, provvedere alla gestione della casa, delle tasse, delle bollette, dei pannoloni presso le Asl e via dicendo.

Quando pensi che hai sistemato tutto esce sempre qualcos’altro da fare. E poi ci sono i giorni, le notti, di festività o di riposo. Avendo una mia famiglia dopo un anno di salti mortali per supplire alle assenze giustificate del badante ho dovuto provvedere alla ricerca di un sostituto almeno per le domeniche e i giovedì pomeriggio.

La donna che si occupa di tutto questo (cioè io) sostiene il carico di una doppia cura e di una doppia manutenzione in quanto si tratta di far fronte all’esigenze di due nuclei distinti, diversi e talvolta in contrapposizione. Questa donna (sempre io)  quando riesce a fare uno di quei lavori a termine o saltuari deve riuscire a incastrare tutto. Questo produce una drastica riduzione del tempo per sé. Praticamente lo riduce a zero. Se aggiungiamo anche una forte pressione psicologica posso dire a pieno titolo, anche se il mio non è un parere medico, che le donne siano, potenzialmente, nel prossimo futuro il soggetto più a rischio di depressione.

loredana de vitis commented

La maggior parte delle volte in cui ascolto frasi che contengono le parole “donne” e “lavoro”, trovo che quelle frasi siano molto lontane dalla mia sensibilità, esperienza e pensiero politico. Pare che la stragrande maggioranza delle donne lavorino per “contribuire ai bisogni della famiglia”, al meglio per “necessità”. Praticamente mai per sé, quasi sempre per qualcosa o qualcun altro.

In quelle frasi c’è poi quasi sempre la parola “problema”: la “conciliazione” è un problema femminile, l’abbandono del lavoro dopo i figli è un problema femminile, la difficoltà di carriera è un problema femminile. Su questi aspetti della vita, della vita di tutti, sembra che gli uomini non esistano. Sembra che siano su un altro pianeta.

 

Vorrei invece sentir parlare di desiderio.

 

Io lavoro perché esprimo qualcosa di me, desidero sviluppare me stessa, evolvere, utilizzare e migliorare le mie capacità e competenze. Io lavoro perché desidero vivere anche grazie a questa “parte” di me, desidero avere del denaro perché me lo merito, desidero “crescere” nel lavoro perché lo voglio e ne sono capace. Mi piace lavorare, mi gratifica anche quando mi affatica, mi fa stare un po’ più in pace con me stessa anche quando mi verrebbe voglia di mollare tutto. Non si tratta di voler “fare carriera”, secondo un cliché ormai francamente noioso, si tratta semplicemente di percorrere una strada che, se riferita a qualunque uomo, sarebbe interpretata come normalissima, di naturale crescita personale. Penso che finché il lavoro delle donne continuerà a essere descritto come “accessorio”, “complementare” a quello degli uomini, in un obbligato percorso ideale di costruzione di una famiglia tradizionale, le donne non potranno mai esprimere veramente se stesse per intero. Come e più degli uomini, continueranno a cercare un lavoro “qualunque”, quello che “capita”, soprattutto in un periodo e in un paese troppo avari di opportunità. Se questa è l’ottica, non abbiamo scampo: continueremo a riprodurre il vecchio schema secondo il quale la nostra “realizzazione” è nelle funzioni biologiche, trascurando il fondamentale lavoro interiore di comprensione di noi stesse e delle nostre potenzialità.

Non mi piace, non ci sto. Io desidero un percorso diverso.

 

pina nuzzo post  Ma se io metto al centro del mio pensare il mio corpo fertile

 

I  ‘commenti’ che ho scelto – potevano essere di più –  mostrano chiaramente quanto le donne siano cambiate, come ne siano consapevoli e sappiano raccontarlo. Da questi ‘commenti’ e da altri che potete trovare su udichesiamo.org, si capisce che quando le donne parlano di lavoro non possono prescindere dalla maternità e dal lavoro di cura. E’ pure evidente che si tratta di donne appartenenti tutte ad una stessa classe sociale, non saprei dire quale, secondo le vecchie categorie, ma tutte sono istruite; hanno in comune esperienza di lavori precari, spesso svolti dentro casa; hanno un bambino piccolo e tanti anziani di cui occuparsi. Tutte sono determinate a realizzarsi nella vita liberamente e autonomamente. Loredana nel consegnarmi con fiducia il suo commento, come hanno fatto le altre, a voce ha sottolineato l’importanza dei soldi nel gestire anche le relazioni interpersonali. Infatti difficilmente una manager mette l’accento sulla condivisione, il problema viene risolto diversamente. Del resto tutte noi, non solo le manager, dobbiamo molto della nostra emancipazione alle rumene o alle ucraine che ci sono necessarie per rendere compatibili le nostre responsabilità domestiche con le responsabilità del lavoro.

 

Ho voluto essere accompagnata in questa giornata dalle parole di altre donne perché la politica, che è il mio ambito di ricerca e di azione, ha bisogno di costruire le sue azioni sulla materialità della vita, oltre i luoghi comuni. Ho detto e scritto molto in questi anni, anche sul lavoro, a volte mi è sembrato di farlo nel vuoto, invece la capacità di tante di fare da sponda al mio pensiero con parole proprie mi sollecita ad andare avanti. Anche l’invito a parlare in questo contesto è il segno di un ascolto reciproco.

Dopo tanti anni di politica sono giunta alla conclusione che la società, per come è pensata e strutturata, non sarà mai ‘casa’ per una donna. Il tempo della vita  strutturato in modo lineare – prima si fa questo, poi questo, poi quest’altro ancora – è funzionale al modo di pensare e di essere di un uomo. Dentro questa linearità egli è a proprio agio, il suo corpo non solo si adatta, ma vi corrisponde.

Mentre una donna, per quanti aggiustamenti si possano operare, per quante leggi si possano ottenere, rimane estranea in una società così concepita. Il corpo di una donna ha un suo ciclo di vita che non può essere costretto dentro un tempo  che non preveda discontinuità. Il desiderio di fare un figlio non può essere messo sullo stesso piano di altre scelte: prima finisco gli studi, poi faccio un master, poi mi specializzo, poi faccio un figlio…

Non si può più accettare che il concetto di autodeterminazione sia subordinato alla necessità del momento, che rimanere incinta sia una scelta procrastinabile quasi all’infinito.

Non possiamo più accettare che il corpo fertile di una donna venga sottoposto alla coercizione di un tempo lineare, progressivo perché, mentre si domanda cosa sia meglio fare prima, perde di vista il suo corpo, non riesce più ad ascoltarlo, a decidere cosa è meglio per lei. Il tutto accompagnato dall’angoscia di dover essere all’altezza e perfette, sempre più aliene da sé.

Anche la politica ha un prima ed un dopo ma l’agenda dovrebbe essere segnata dai corpi – dalla loro “pesantezza” – che dovrebbero indurre alla concretezza e a rivedere i sistemi di welfare vecchi e nuovi.

 

Ma se io metto al centro del mio pensare il mio corpo fertile, che non vuol dire corpo che necessariamente genera, devo accettare che venga prima.

E che nella relazione con l’altro sia asimmetrico.

A mio vantaggio.

Essere una donna è un privilegio.

Se assumo questa asimmetria, e finora noi donne non l’abbiamo fatto, posso stabilire un patto con le altre –  anche con quelle che i figli non li faranno mai, che non li vogliono – che ci renda capaci di negoziare con l’altro lo spazio pubblico e quello privato. Capaci di determinare i tempi e i modi della convivenza civile che nel nostro Paese si chiama Democrazia. Una democrazia condivisa che preveda e comprenda la differenza tra i generi come un diverso punto di partenza per affermare differenti diritti, differenti doveri. Donne e uomini troveranno la misura dell’essere madre e padre quando la società in cui viviamo accoglierà come un corpo che fa ordine il corpo fertile delle donne. Allora il generare – nel senso di fare un figlio proprio con quell’uomo – diventerà anche un progetto con quell’uomo.  Questo sarebbe uno spostamento ENORME che può avvenire con il supporto di pensatrici e di politiche.

Per la mia esperienza, nella politica, o almeno quella che interessa a me, è superata la fase delle azioni parziali, a tema – rappresentanza, lotta agli stereotipi e perfino il contrasto alla violenza – perché quanto abbiamo fatto, in termini di leggi e di campagne, cammina sulle gambe delle donne e le istituzioni sono sempre più costrette a farci i conti per il buon motivo che le cittadine votano.

Serve una politica che sappia prendersi il tempo della crescita e della cura del pensiero, che torni a occupare lo spazio pubblico con forme nuove. La consuetudine alla piazza virtuale ha trasformato la vecchia piazza in una piazza mediatica – spesso gridata – sempre più oggetto di consumo. Tutto questo ha reso irrilevanti le forme tradizionali della politica.

 

Il prossimo 2 giugno, donne associate Udi e no, stanno organizzando a Pesaro, attraverso udichesiamo.org, la Piazza delle donne che siamo

 

Mi sto spendendo in questo progetto perché voglio ingombrare uno spazio pubblico.

Voglio semplicemente trovarmi lì – in quel giorno in quell’ora, in quel luogo – con donne che abbiano lungamente pensato a quell’appuntamento come ad un incontro amoroso e si siano preparate a questo. Da lì e con le altre, riparto per mettere a punto una strategia politica fondata sul mio corpo fertile e sul privilegio di essere nata donna.