“Donna o madre, anche Bergoglio inciampa”

di Giorgia Serughetti in europa.it (con alcune “riflessioni” di Marinella Perroni)

«Siate madri, non zitelle» ha detto il papa alle 800 suore convocate all’assemblea dell’Unione delle superiori generali

Stavolta non si tratta di puttane e madonne, di Maddalena e Maria, ma papa Bergoglio è stato chiaro nel dividere a metà l’universo femminile: le madri e le non madri, i corpi generatori di vita e i corpi infecondi.

Le dicotomie sono un’arma insidiosa del potere, e il potere maschile le ha sempre sapute usare con gran destrezza. L’invenzione di due figure femminili, contrapposte tra loro, l’una disprezzata l’altra venerata, è da sempre la mossa più abile per escludere in un sol colpo tutte le donne, con i loro corpi, dalla piena cittadinanza.

Così nell’arco di un paio di giorni, mentre Oliviero Toscani, il gran provocatore, ha spiegato cosa distingue una donna per bene (che la violenza «non se la va a cercare») da una donna di facili costumi (tacchi inversamente proporzionali all’intelligenza e labbra scintillanti di rossetto), il più mite Francesco ha deciso di addentrarsi nel mondo delle madonne. «Siate madri, non zitelle», ha detto alle 800 suore convocate all’assemblea dell’Unione delle superiori generali. La castità, ha spiegato, deve essere «feconda», generatrice, come insegna la figura di Maria Madre.

Che Bergoglio sarebbe scivolato proprio sulle donne le osservatrici più attente l’avevano intuito fin dal principio. E non sarà il suo linguaggio “caldo”, così diverso da quello del suo predecessore, a riscattare la cultura che le parole fanno trapelare. «Anche un linguaggio “cordiale” può essere paternalista, anzi un certo tipo di cordialità favorisce il paternalismo», ricorda la teologa Marinella Perroni, tra le promotrici del movimento “Se Non Ora Quando?”. «La teologia femminista ha lavorato tanto sull’empowerment, su una padronanza di sé a tutto tondo a cui le donne non possono né devono rinunciare qualsiasi sia lo status della loro vita, e che pretendono sia conciliabile anche con la vita religiosa».

Ecco invece l’ennesima espressione di una visione della donna sempre e solo funzionale: la maternità, fisica o spirituale, come unico destino. Fuori da questo recinto resta a disposizione solo un’identità negativa, gravata fin nel linguaggio dal disprezzo e dal ridicolo: la donna che, non avendo saputo o voluto sposarsi (nella maggior parte dei casi nemmeno con Cristo) né generare, non trova una destinazione sociale adeguata al suo sesso.

Certo, sullo sfondo si intravede neppure tanto velatamente il contenzioso aperto tra il Vaticano e le rappresentanti della Leadership Conference of Women Religious, l’organizzazione liberal che raccoglie l’80 per cento delle religiose statunitensi, e che il Sant’Uffizio ha commissariato perché, in sintesi, troppo femminista. Facile vedere quindi nelle parole di Francesco un monito all’obbedienza verso il magistero e la gerarchia cattolica: «Che cosa sarebbe la Chiesa senza di voi? Le mancherebbe maternità, affetto, tenerezza, intuizione di madre!». Le suore come indispensabili procreatrici spirituali, curatrici di corpi e anime altrui: insomma «l’oblatività portata al massimo della sublimazione» secondo Perroni.

La questione, però, non sembra potersi liquidare come un problema che riguarda solo le donne nella Chiesa. Loredana Lipperini ha dedicato il suo ultimo libro, Di mamma ce n’è più d’una (Feltrinelli, 2013), al ritorno della maternità come destino. Il refashioning del ruolo materno passa attraverso la figura «trionfante» della «mamma acrobata», la celebrazione dei figli che «danno un senso alla vita», la parola d’ordine della «conciliazione» tra casa e lavoro. E la consacrazione della genitrice procede, non casualmente, di pari passo con i tagli al welfare, con la disoccupazione femminile, con la strisciante colpevolizzazione delle donne in carriera, e naturalmente con l’offensiva contro l’aborto. Detto per inciso, è proprio la posizione troppo tiepida nei confronti sull’aborto uno dei capi d’accusa che grava sulle suore americane che il Vaticano ha messo in castigo.

Eppure, scrive Lipperini, contro un’autorappresentazione del proprio ruolo che funziona come subdola alleata del potere maschile, alle donne «basterebbe riaffermare con forza che non esiste un solo modo di essere madre», un modo così intimamente legato all’idea del sacrificio. E soprattutto, «basterebbe sottolineare che non è necessario essere madri per essere, ebbene sì, felici: perché le donne che scelgono di non esserlo non hanno voce, sono un’anomalia». Le donne non potrebbero che giovarsene, tutte. Le mamme e le non mamme, biologiche o simboliche, dentro e fuori i confini della grande «Madre» Chiesa.

@giorgiaseru

http://www.europaquotidiano.it/2013/05/09/donna-o-madre-anche-bergoglio-inciampa/