“Un nuovo modello di prete” di José María Castillo

in Adista on line
Il nuovo modo di presentarsi in pubblico di papa Francesco, che tanto richiama l’attenzione della gente, ha un peso maggiore di quello che immaginiamo. Se qualche giorno fa scrivevo che non basta cambiare le scarpe (e i vestiti) per rinnovare la Chiesa, oggi devo insistere su un altro aspetto del problema che mi sembra importante. Di più: fondamentale.
Mi riferisco a qualcosa che è molto più rilevante dell’abito che si indossa. Parlo dello stile e del modo di relazionarsi con gli altri, con la gente in generale. Non c’è dubbio che questo papa sia diverso. In molte cose, è come un uomo tra tanti, come uno qualsiasi. Almeno questa è l’impressione che produce in chi lo vede, lo ascolta o si rivolge a lui. Si è spogliato di tutti gli orpelli di cui ha potuto disfarsi. E si sforza di comportarsi come un uomo normale. Né più né meno.
Ecco, è questo che mi sembra rappresenti un “nuovo modello di sacerdote”. Perché? Nel porre questa domanda, affrontiamo una questione che, nel cristianesimo, ha un’importanza che forse non sospettiamo. Nella Lettera agli Ebrei, presentando Gesù (Eb 3,1) come “sacerdote”, l’autore afferma che Cristo, «per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele», dovette «rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17). È così, rispettando questa condizione, che divenne in grado di «espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17). Il verbo che utilizza il testo originale è “homoioô” che esprime conformità, somiglianza totale (G. Haufe). Cosa che ci riporta nientemeno che alla “kenosis” di Dio in Gesù (Fil 2,6-7). Dio si spogliò di tutte le sue differenze. E così, fattosi «come uno tra tanti», portò salvezza e speranza a un mondo pieno di disperazione.
Il criterio è chiaro e impegnativo allo stesso tempo. Per trasmettere alle persone speranza, fede e vicinanza a Dio, la prima cosa su cui deve impegnarsi chi vuole collaborare in questo compito è sopprimere le differenze, le distanze, le onorificenze, gli atteggiamenti di superiorità. Chi non fa questo, si comporterà da pagliaccio per tutta la vita. Non da sacerdote. E questo preoccupa e fa riflettere. Soprattutto quando vediamo i giovani preti che, per prima cosa, appena ordinati, indossano gli abiti che li distinguono e sembrano dire: “Sono diverso, sono superiore, sono sacro e consacrato, e ho un potere che voi non avete, né avrete mai, perché non sarete mai come me!”. Lo so che nessuno è così stupido da pensare tutto questo. I preti che si vestono da preti lo fanno perché “così è stato comandato”. E sono uomini obbedienti alle leggi che vengono da Roma, dalla Curia o dal Vicariato. In questo atteggiamento di obbedienza, meritano tutto il rispetto. E, per quanto mi riguarda, anche vera ammirazione. Perché io non indosserei quegli abiti, neanche se venisse la polizia a mettermeli.
Il punto – non so se ho ragione – è che credo fermamente che la teologia del Nuovo Testamento abbia più autorità, in materia, di quella che possono avere leggi e costumi che vengono da Roma. Di più: mi chiedo se Gesù abbia dato potere all’autorità ecclesiastica per decidere come debba vestirsi la gente. Soprattutto se consideriamo che l’abito è solo un indicatore di tutto un “modello di persona”. Ed era qui che volevo arrivare.
Papa Francesco, con la sua semplicità e modestia, sta dicendo alla Chiesa quello che ha già detto in uno dei suoi ultimi interventi: la responsabilità della frammentazione che vive la Chiesa è della Chiesa stessa.
Ci siamo montati la testa, nel clero troviamo gente volgare e arrivista, sono state nascoste cose che mai dovrebbero esserlo, si vogliono mantenere privilegi, distanze e onorificenze che niente hanno a che vedere con il Gesù del Vangelo. È chiaro che seguendo questa strada aumenteremo le distanze e resteremo sempre più indietro.
E saremo ridotti a coltivare i limitati gruppi conservatori che ci restano. Già il card. Albert Vanhoye, il miglior conoscitore (cattolico) della Lettera agli Ebrei, ci ha fatto capire che l’originalità di questa lettera sta proprio nel fatto che interpreta il sacerdozio di Cristo, rispetto al tema che stiamo trattando, esattamente in modo contrario a come lo presenta l’Antico Testamento. La condizione per accedere al sommo sacerdozio, nell’antico Israele, era la separazione: a questa dignità potevano arrivare solo i leviti. E, tra i leviti, era necessario appartenere alla famiglia di Aronne; di più, alla stirpe di Sadoq (Es 29,29-30;40,15; Sir 45,13-16.15-19.24-30).
A questo si aggiungevano i riti solenni, i sacrifici, le unzioni, gli abiti speciali che quel sacerdozio comportava (Es 29; Lev 8-9). Tuttavia, nel caso di Gesù, niente del genere viene menzionato. Il sacerdozio di Gesù non è “rituale”, ma “reale” (Eb 5,7-10; 9,11-28). Per questo a Gesù non servì separazione o onorificenza alcuna, ma il contrario: la sua vita fu una discesa inarrestabile, fino a terminare i suoi giorni come li terminavano gli ultimi di quella crudele società: disprezzato, umiliato, torturato e crocifisso tra malfattori. E così visse il suo sacerdozio.
Papa Francesco ha iniziato un nuovo cammino per i sacerdoti nella Chiesa. Chi cerca onorificenze, privilegi, distinzioni e cose del genere che le cerchi altrove. Perché in realtà non è stato papa Francesco, né San Francesco al quale egli si ispira, ma Dio stesso, in Gesù, ad aprire il cammino che sconcerta tutti noi. L’unico cammino in grado di condurre alla vera umanizzazione che nobilita questo mondo: il cammino che ci indicano “gli ultimi”, coloro che Gesù indicò come “i primi