Relazione di Lucia Vantini a Vicenza sul seminario Sui Generis

“SUI GENERIS”: IL “GENERE” IN TEOLOGIA.

Il seminario organizzato dal CTI a Tivoli il 20-22 aprile ha coinvolto molte studiose di teologia: donne che se
ne occupano per lavoro ma anche donne che ne sono istintivamente attratte, pur senza appartenere ad ambiti accademici. Donne giovani e meno giovani confluite lì per la qualità del discorso su Dio che avrebbero
condiviso in quell’occasione, ma allo stesso tempo mosse dall’intento di indagare in quali termini la propria differenza femminile si riversi, implicitamente o dichiaratamente, nella loro stessa prospettiva teologica.

Il
punto di osservazione assunto durante i lavori è stata la categoria di
“genere”, che ha attraversato,
più o meno esplicitamente, tutte le relazioni. Riflessioni che hanno
tentato di mettere a tema, secondo l’orientamento personale, il senso e
il funzionamento di questo termine in teologia. Che cosa significa, in
sostanza,
fare una “teologia di genere”? Quali significati apre? È questo
l’interrogativo a cui si è cercato di rispondere, attraverso uno
scambio libero di esperienze e punti di vista.

Fin da
subito è stata percepita la complessità dell’impresa. La categoria di
“genere” è
irrimediabilmente polisemica per cui non si dispone di una definizione
puntuale da cui partire. È uno di quei termini che prende invece
fisionomia in base al contesto in cui viene utilizzato. Questa fluidità
semantica rende complicata la gestione del confronto dialettico.

Tuttavia,
se le spiegazioni che hanno storicamente accompagnato la parola
“genere” non sono sovrapponibili,
si possono comunque condensare attorno ad un nucleo di senso abbastanza
condiviso, guadagnato a partire dal processo con cui il lemma ha preso
forma e si ritrova presente nella contemporaneità. Quindi, con
attenzione
alla sua genesi, ci poniamo alcune domande: Come e dove nasce il
paradigma del “genere”? Per quale motivo, ad un certo punto, fa
capolino nei dibattiti femministi? Quali realtà intendeva illuminare?
Quali nodi prometteva
di sciogliere?

Le
risposte ci consentiranno di mettere a fuoco il dibattito odierno
attorno a questa categoria, passando ad ulteriori
interrogativi: Perché alcune prospettive femministe la raccolgono e
altre la rifiutano? Che cosa sperano di ottenere, euristicamente
parlando, le pensatrici che la utilizzano e che cosa temono di perdere
quelle che
la rifiutano?

Andiamo
per ordine. Questo termine appare nel pensiero femminista inglese a
metà degli anni ’70 mutuato
dalla retorica e dalla filosofia ma la sua affermazione si lega alle
scienze sociali angloamericane di quegli anni che, indagando la dualità
umana di maschio e femmina, registravano una sorta di insofferenza nei
confronti
della metodologia di indagine utilizzata fino a quel momento perché
troppo statica. La specificità sessuale infatti era intesa come
qualcosa di già dato, come una delle tante realtà che ci stanno
davanti agli occhi, senza che il contesto simbolico che la interpretava
entrasse a far parte del quadro di ricerca.

Ben
presto una mutata sensibilità chiama in causa le dinamiche
interpretative: si comincia ad intuire il
ruolo dei processi culturali nella configurazione di “maschilità” e
“femminilità”. La domanda viene allora modificata e orientata alla
modalità con cui uomini e donne declinano, nel loro contesto
sociale e personale, il loro essere sessuati. Riprendendo una famosa
espressione di Simone De Beauvoir, «donna non si nasce ma si diventa»,
prende forma l’idea che l’esser-donna (e anche l’esser-uomo, ma qui
pare che
la pressione collettiva sia meno rigida) consista in una costruzione
sociale, dipendente strutturalmente dal contesto in cui ci si colloca e
dai modelli culturali che lo caratterizzano.

Si
intravede subito la promessa epistemologica di questa categoria e le
aspettative che la animavano: essa offriva
la possibilità di scardinare tutte le costruzioni sociali che fino a
quel momento costringevano la propria identità sessuale dentro un ruolo
predeterminato, da assumere obbligatoriamente, volenti o nolenti. Non
sarebbe stato più necessario sforzarsi e mortificarsi, per elemosinare
quel minimo di riconoscimento pubblico che passava per l’accettazione
di modelli estranei se non in alcuni casi ripugnanti. Ovviamente
l’entusiasmo
legato a questo “strumento diagnostico” fu travolgente: come una
“leva”, permetteva di spostare gli ostacoli senza azione diretta,
semplicemente illuminandone la struttura arbitraria e convenzionale,
consentendo alle
donne di pensarsi liberamente senza compromettere il loro diritto ad un
posto nel mondo. Cade il divieto di rinnegare quel sistema di ruoli che
generazioni di donne ereditavano senza via di scampo.

La
denuncia di questi meccanismi oppressivi è un primo passo. Il secondo è
quello della loro rimozione.
Il discorso di “genere” non rinuncia a connettere dimensione analitica
e dimensione performativa: nominare la costruzione sociale quale
prodotto culturale significa già allentarne il vincolo, concedere
creatività
al percorso di formazione dell’io, incoraggiare a tentare vie
identitarie differenti senza per questo venir estromessi dalla
dimensione pubblica come soggetti disturbanti.

Questa
doppia valenza, analitica e trasformativa, ha permesso alle donne di
sbarazzarsi del biologismo e dell’essenzialismo,
o per lo meno di dichiararne i limiti: non si può definire a priori chi
è l’uomo e chi è la donna, come se il carattere sessuale fosse un dato
materiale su cui fondare la propria identità personale.
Non si può pensare che ci sia una sorta di “destino anatomico” che
disegni a priori lo spazio abitabile per uomo e donna. Possiamo dunque
sottrarci al già-codificato in cui siamo implicati per nascita (anche
se nulla, nella vita, è totalmente scavalcabile).

A
partire da quest’opera di pulizia che tenta di sospendere e
neutralizzare l’interferenza del sociale sulla
formazione della propria soggettualità, la donna si è ripresa (se mai
l’ha avuta) la parola, consapevole ormai dei filtri culturali che hanno
funzionato per ammutolirla ed emarginarla. Ha assunto finalmente
la responsabilità di un discorso originale, non appoggiato a paradigmi
pensati da altri, coinvolgendosi personalmente nell’esposizione.
Ancorata a ciò che le pareva più essenziale, più familiare,
ha provato a sottrarsi alle insidie del sistema androcentrico che la
confinava ai margini del mondo pensante.

Questo
discorso di “genere”, sebbene sia raccolto dalla prospettiva
femminista, non riguarda solo le donne:
le costruzioni sociali, nonostante si rivelino più crudeli nei
confronti delle donne, funzionano nella formazione dell’identità di
entrambi i sessi, per cui l’invito ad indagare il dimorfismo sessuale a
partire
da questi meccanismi è valido per tutti. Questa comunanza di metodo
rende possibile il dialogo e lo scambio fra uomini e donne che si
interrogano sul reale e si sforzano di produrre pensiero: è all’interno
di un teatro comune, quello culturale, che si gioca il confronto. Una
risorsa fondamentale che impedisce l’autoreferenzialità femminile,
senza per questo pregiudicare la fisionomia del lavoro interpretativo.

Questa categoria ha mantenuto le promesse?

Difficile
dirlo. Tuttavia è doveroso soffermarsi sulle critiche che le sono state
rivolte. Soppesando la
gravità delle accuse e valutandone l’obiettività, possiamo beneficiare
così di un’altra misura per esaminare la consistenza e la solidità del
“genere” come cifra ermeneutica. Il pensiero
della “differenza”, mirando ad articolare, in un intreccio
indissolubile di pratica e teoria, un ordine simbolico segnato
dall’esperienza femminile, si pone in netta contrapposizione con il
femminismo del “genere”,
rilevando alcune ambiguità:

1. Non è sufficiente spostare una categoria, dall’ambito neutro
a quello del femminismo, per affrancarla dalla matrice androcentrica da cui ha preso le mosse. La
categoria di “genere”, infatti, non deriva originariamente dal pensiero
femminista,
non si radica nel pensiero delle donne, ma viene mutuato dal contesto
neutro delle scienze sociali. Questo debito, per il pensiero della
differenza, non potrà mai essere estinto perché è gravido di
conseguenze
nefaste: non si esce da quella logica androcentrica che si sta
criticando. Chi non coglie questa impasse o (peggio) sceglie di
ignorarla sottovaluta il condizionamento del sapere patriarcale, che
condurrà inevitabilmente
a ridisegnare lo spazio simbolico come inospitale per le donne. Il
discorso di “genere”, insomma, non sarebbe in grado di uscire dall’asse
kiriarcale perché non rinuncia alla fisionomia (falsamente) neutra del
suo procedimento.

2. Usare quella di “genere” come categoria comparativa annulla la
strutturale asimmetria che passa fra discorso maschile e discorso femminile.
Per il pensiero della “differenza”, la specificità di maschi e femmine,
pur sfuggendo alla
sistematizzazione e alle definizioni, rimane un dato qualitativo e non
quantitativo. Non si tratta di spartirci il campo del sapere: i teologi
impegnati sulle questioni maschili e le teologhe su quelle femminili.
Non è
una questione di contenuti e non si tratta di riappropriarci di temi
finora preclusi. Bisogna invece proiettare uno sguardo differente,
senza riprodurre logiche estranee. Non si può sostenere che il maschile
e il femminile
si costruiscano sempre reciprocamente, dentro un ordine sociale
complesso.

3. La prospettiva di “genere” si limita alla decostruzione. L’orizzonte
in cui si situa rimane quello rivendicativo e non riesce a far
riaffiorare quelle esperienze di libertà femminili
che comunque si sono date nel tempo e che la storia ha emarginato
conservandone tuttavia le tracce. La prospettiva dell’uguaglianza non è
di per sé insensata o scorretta (la libertà prende forma dentro
un contesto di possibilità che devono essere effettive, altrimenti le
scelte si svuotano) ma si rimane a guardare quello che manca. La
differenza sessuale chiede invece di essere indagata a partire
dall’inedito che
riesce ad aprire nelle maglie della necessità e non attraverso lo
sforzo di recuperare il maltolto: il guadagno, alla fine, si rivela
molto deludente.

4. La categoria di “genere”, prende senso dal rapporto con quella
di “sex”, rimane invischiata in uno schema binario fatto di contrapposizioni. Il nesso fra sex e gender
è tutto da indagare: c’è chi ritiene si tratti di un nesso oppositivo
chi invece lo interpreta come un legame strutturale di tipo correlativo
e co-definente. Tuttavia i binomi, anche
quando dischiudono significati, non riescono ad incrociare la
dinamicità delle realtà che tentano di decifrare. Nel caso di una
riflessione sulla differenza sessuale, ogni strumento di indagine che
funziona rigidamente
rischia di banalizzarne la portata, riferendo al sex il corredo biologico dell’individuo e al gender gli elementi di tipo socio-culturale.

5. Sembra che tutta la questione si giochi al livello del linguaggio e
del sistema culturale.
Se l’essere-uomo e l’essere-donna non sono dati materiali ma risultati
del sistema sociale dominante, è a partire dai nessi linguistici e
culturali
che il discorso dell’identità di “genere” prende consistenza. Pensieri
radicali centrati sul “genere”, come quello di Judith Butler, si
spingono a denunciare la fisionomia culturale sia del gender sia del sex: anche l’essere maschio o femmina sarebbe effetto di pratiche discorsive. Solo che questo appare meno evidente perché il sex
continua ad essere presentato attraverso un registro che fa riferimento
alla natura. Tutto sarebbe culturale, prodotto del simbolico dominante
per cui
nulla, nemmeno la propria appartenenza al genere, vincolerebbe la
persona a determinate scelte o modi di essere. La propria femminilità o
maschilità appare, in quest’ottica, “personalizzabile” liberamente
e senza condizioni. Ne consegue che il modello che ci viene chiesto di
incarnare mantiene la sua fisionomia obbligante e in qualche modo
rimane influente (il pensiero del genere non crede ingenuamente ad un
processo di personalizzazione
dell’io totalmente svincolato dal contesto) ma scorge nel mondo degli
spazi di manovra in cui si può negoziare e contrattare con le strutture
interpretative correnti giocandosi tutto all’interno dei luoghi
culturali. Il pensiero della “differenza” trova riduttivo impostare la
questione in questi termini perché non tutto avviene nel linguaggio.
Confinarsi qui, mettendo in dubbio la realtà prediscorsiva, ci si
incatena
alle convenzioni e la stessa differenza fra sesso e genere arriva a
dissolversi.

Queste
provocazioni vanno assunte perché interpellano aspetti essenziali delle
teorie basate sul “genere”.
Le donne che vi aderiscono non si lasciano spostare da queste critiche
e non abbandonano la strada scelta, che continua a sembrare loro
preferibile. Anzi, rilanciano alcune sfide di metodo sollecitando il
pensiero della “differenza”
a rispondere a sua volta ad altre osservazioni :

1. Il pensiero della differenza rischia l’essenzialismo perché
si basa su premesse e principi determinati dalla biologia.
Una attenzione così accesa sulla “differenza” femminile pare
estremizzare lo scarto fra i due sessi a tal
punto da renderla qualcosa di assoluto e da ricadere nella
configurazione di uno “specifico femminile”. Si tratterebbe di un esito
inaccettabile, dopo tutti gli sforzi e le fatiche di decostruire
quell’aura di perfezione
eterea e ideale a cui si deve la cancellazione della donna in carne e
ossa! Il pericolo è quello di rinchiudersi in un luogo simbolico tutto
femminile, reso accessibile attraverso il recupero degli scarti della
storia,
senza più provare a muoversi da lì, a confrontare la propria verità con
sensi ricavati a partire da un’altra parte. Questa critica, in
sostanza, accusa il pensiero della differenza di non essere in grado
di costruire senso, di fornire una qualche mediazione fra il piano
della cultura e il piano della natura. Vanno in questa direzione ad
esempio le riflessioni di Cettina Militello per la quale la categoria
della “differenza”
non può funzionare da categoria portante, perché estranea al pensiero
cristiano delle origini e tutto sommato equivoca. Ritiene che qualunque
indagine mirata sulla differenza sessuale conduca inevitabilmente
nelle secche della mistica della femminilità. In teologia, in
particolare, questa prospettiva fa coincidere (nella donna e solo nella
donna) “corpo” e “natura”, chiudendo la questione femminile di nuovo
nel
silenzio, nel privato, fuori dalla storia. È preferibile lavorare con
le categorie di “complementarietà” e “reciprocità” in quanto permettono
una metodologia antropologica, metafisica, teologica
non diversa dal discorso maschile e quindi non esposta al rischio di
auto-esclusione dallo scambio. Prospettiva appoggiata al dato biblico
stesso, che racconta di una comune e reciproca umanità che precede e
fonda la
differenza sessuale (Gen 1,26-27): maschio e femmina hanno per lei in
comune l’essere “a immagine di Dio”, per cui la sua antropologia
teologica è innestata sulla reciprocità trinitaria. La chiave analogica
fra l’essere umano e Dio sarebbe quindi quella della
differenza-nella-reciprocità.

2. è un pensiero egologico: il fulcro della ricerca è la
propria identità e non altro.
Il pensiero della differenza, decidendo di uscire dall’orizzonte dei
codici simbolici dominanti cercando una misura altra, senza percepire
l’esigenza di un confronto con essi (anzi contestandola), chiude il
soggetto femminile in un cerchio autoreferenziale, in cui l’immagine
che mi rimanda l’altra, le altre, è sufficiente per capire chi sono. La
propria esperienza è punto di partenza di un pensiero autentico, che
non si nasconde dietro ai luoghi comuni, che non ripete percorsi fatti
da altri, che non cerca la propria legittimità all’esterno, presso
autorità ufficiali ma straniere.

3. è un pensiero elitario.
Le pensatrici della differenza avrebbero un bel dire
sull’inessenzialità e sull’insignificanza della lotta per
l’uguaglianza, in quanto l’identità femminile non sta nell’essere
come l’uomo maschio. Questo lo possono sostenere in quanto riflettono
da una posizione privilegiata, godendo di una sostanziale libertà dal
punto di vista del diritto. E le donne oppresse e maltrattate di tutto
il
mondo?

Il
pensiero del “genere” e il pensiero della “differenza” condividono la
cura per la questione femminile
e hanno indubbiamente finalità decostruttive affini, orientate a
rendere possibile un senso della propria specificità sessuale libero e
mai predeterminato. Tuttavia si rivelano insanabilmente divergenti
riguardo
la modalità di assumere tale questione come compito. Questa sostanziale
incompatibilità è certa e ne abbiamo una dimostrazione nella diversità
di reazioni dei due mondi di fronte al documento ai
vescovi prodotto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel
2004, firmato dall’allora Cardinale Ratzinger.

La
Lettera prende posizione contro le dottrine femministe centrate sul
“genere” che «non coincidono con le
finalità genuine della promozione della donna» (si riconoscono qui le
teorie di Judith Butler quale bersaglio polemico sotteso): non si può
arrivare a cancellare la differenza sessuale in nome di una sua
presunta
arbitrarietà culturale: essa non è affatto una costruzione sociale, un
prodotto del sistema simbolico in cui si trova ad essere vissuta e
significata.

Senza entrare nei dettagli delle repliche che ne sono susseguite, le raccolgo indebitamente, senza render loro giustizia,
in due filoni:

 le pensatrici della “differenza”
giudicano il percorso di Ratzinger sorprendentemente in linea con il
proprio: la categoria di “genere” risulta fuorviante per la libertà
femminile che non troverà la propria identità
in maniera speculare rispetto ad un uomo, sia che vi si rapporti come
ad un modello di potere a cui assomigliare sia che apra con lui un
conflitto serrato rivendicando parte del suo spazio. La donna, radicata
nella propria
specificità sessuale, può sperare di realizzarsi solo se si svincola
dalla simmetria con l’uomo maschio e pensa a partire da un ordine
diverso, “materno”. Certo, forse non viene sottolineata abbastanza
la difficoltà di relazione fra uomo e donna, che non è mai irenica: i
momenti di armonia sono conquistati attraverso un conflitto, seppur
relazionale. Tuttavia si condivide la presa di distanza dall’idea che
tutto, anche il proprio sesso, sia culturale e che quindi possa essere
determinato dalle proprie scelte interpretative e dalla propria visione
del mondo: c’è invece un corpo reale e vivo, maschile o femminile, che
non può essere tralasciato nell’interrogazione della propria
soggettualità. Un corpo sessuato che non va inteso sul versante
biologico, della pura fattualità: è un corpo pensante, creatore di
simbolico.

 le pensatrici del “genere”,
soprattutto quelle che conoscono più da vicino l’orizzonte ecclesiale,
reagiscono invece con irritazione e rabbia: a loro pare che, in nome di
una differenza sessuale irriducibile a null’altro,
la Lettera vada verso l’essenzialismo, ricacciando la donna dentro un
paradigma naturale già fissamente interpretato. Finge di liberarla per
condurla ad una nuova (in realtà ben conosciuta) prigione. Il
riferimento
a presunti valori femminili (seppur corretto con la specificazione che
si tratta di valori umani, incarnati però prevalentemente da donne)
appare subdolamente prescrittivo. Ad aggravare il giudizio c’è
l’impressione
che la gratificazione finale riguardante una via carismatica che
comunque condurrebbe «al cuore della vita cristiana» serva a chiudere
definitivamente la questione del sacerdozio femminile. Non è
accettabile, per
loro, giudicare la donna che aspira al presbiterato come qualcuno che
ha smarrito il senso della propria differenza, che vuole diventare
simile all’uomo, che si muove dentro uno spazio binario, vittima della
lusinga del
potere.

Fin
qui ho cercato di prospettare i due orientamenti in maniera abbastanza
oggettiva (per quanto possibile, in questioni
così essenziali e familiari). Tuttavia, quando c’è di mezzo il senso
del proprio ricercare, una posizione bisogna prenderla. Ammetto di
ritenere i limiti della teoria di “genere” più pesanti dei
limiti del pensiero della “differenza”. Senza inerzia, comunque: si
tratta di fare un percorso continuo, di riesaminare costantemente le
categorie utilizzate, di interrogare i cambiamenti della loro
fisionomia dentro contesti
fluidi, senza mai arrivare a definire staticamente i risultati ottenuti
(e questa accortezza metodologica è assunta da entrambi gli
orientamenti). Ecco perché questa mia collocazione sul “versante della
differenza”
non può evitare di misurarsi con le accuse provenienti dalle teorie del
“genere”.

Fra quelle poco sopra ricordate, le critiche che mi paiono più urgenti e indifferibili sono l’accusa di
essenzialismo e l’accusa di egologia. Vanno prese sul serio perché richiamano rischi reali. Bisogna vigilare, allora.

Vigilare ma anche puntualizzare.

Riguardo
la questione dell’essenzialismo, trovo necessario far presente un
equivoco che pesa sul termine “differenza”,
usato diversamente dentro le due prospettive: nel pensiero del “genere”
il termine rimanda alla contraddizione sessuale del maschile e del
femminile e lo sovrappongono al termine sex.
Nel pensiero della “differenza”, invece, il termine prende senso nel
contesto dei rapporti fra donne, quando l’altra rimanda un’immagine di
me in cui posso riconoscermi. Sono quindi le relazioni fra donne (fra
cui quella fondamentale è quella madre/figlia) a disegnare la
differenza femminile, in quel gioco di specchi (in cui ovviamente la
riflessione non
è mai integrale e totalmente fedele) che permette la soggettivazione.
Se fosse invece risultato di un’opposizione fra i sessi le pensatrici
del “genere” avrebbero ragione a paventare l’essenzialismo: il passo
verso la messa a tema dei requisiti necessari all’esser-uomo e
all’esser-donna sarebbe breve.

Da
ricordare, inoltre, è la fluidità di una “differenza” così configurata:
una categoria
che rimane aperta, che non viene mai definita e che non rimanda
immediatamente ad alcuna caratteristica specifica. La differenza sta
dal lato del soggetto e mai da quello dell’oggetto: è una questione di
sguardo sul
mondo. Non va dunque appiattita sulla dimensione biologica, del sex:
c’è simbolico nella “differenza sessuale”. Tanto più che il “corpo”,
così come compare in questa prospettiva, non deve essere inteso nel
senso materiale e meramente
biologico: è un corpo pensante e non semplicemente un corpo senziente.
Il nesso corpo-linguaggio è vitale dentro questo orizzonte. In questo
modo, anche il pericolo di “naturalismo” è tenuto sotto
controllo.

La
questione dell’egologia appare ancora più centrale tanto che si
potrebbe riconoscere come uno di quei
“fili rossi” che hanno attraversato il dibattito. Dove ci conduce
questa inclinazione alle questioni di genere? Soprattutto: siamo certe
che l’attenzione al processo della costituzione dell’io, dell’io
sessuato,
c’entri qualcosa con il discorso su Dio?

Il
seminario non ha prodotto una risposta univoca e definitiva. Ognuna ne
avrà formulata una. Alcune l’hanno
messa pubblicamente in parola, altre l’hanno solo pensata, altre ancora
la staranno sbozzando o addirittura creando. Per quanto mi riguarda, ho
fatto queste considerazioni, cercando il nesso fra identità e ricerca
teologica.

Ho
ripercorso l’ermeneutica. Questa prospettiva ci consegna immediatamente
una risposta positiva ai suddetti interrogativi:
la fisionomia del soggetto che riflette condiziona la domanda
immettendovi il proprio essere, e la domanda dice qualcosa del soggetto
che la formula. Quante volte abbiamo incontrato questa verità? Nessuno
penserebbe
di contestarla. Potremmo allora concludere qui, con questo consenso
donato inaspettatamente da un pensiero neutro. Tuttavia non possiamo
accettare una risposta che non provenga da un’intima interrogazione
personale. Tutte
noi, soggetti femminili che si interrogano su Dio, dobbiamo saper
sostare nel vuoto della ricerca: se ci appoggiamo immediatamente alle
certezze della cultura dominante rischiamo di neutralizzare
l’originalità del
nostro pensiero. L’ermeneutica (pur molto utile in teologia) non riesce
a forzare il confine fra la vita e l’essere, non ci conduce fino al
luogo relazionale in cui veramente il soggetto femminile prende forma e
identità.

Ho
ripensato ai modelli interpretativi basati sulla categoria di
“relazione”. Neanche questi, mi pare, ci devono
soddisfare troppo in fretta. Oggi il concetto di “relazione” funziona
come “passe-partout” metodologico, filtro efficace che consente di
separare essenziale e accidentale nelle questioni fondamentali. Come se
fosse
sufficiente parlare di relazione per collocarsi dentro un quadro
relazionale. Non funziona così: un conto è la parola, un conto la
realtà a cui rimanda (che quasi mai è appena dietro, a portata
di mano). Anche qui, la faccenda è complicata dal segno della relazione
che qui ci interessa: quella fra l’io sessuato e Dio. Un concetto
neutro di relazione ci servirebbe a poco.

Come procedere allora, per individuare il senso della propria identità nella ricerca teologica?

Credo
sia necessario incorporare alla riflessione il nostro rapporto con Dio.
Scrivo “incorporare” perché
non penso all’idea ma all’esperienza della fede, alla frequentazione
concreta del divino. La mia impressione è che finché si teme di dare un
taglio soggettivo al pensiero, si cerca la forza dell’argomentazione
nella sua neutralità e asetticità, non si può dischiudere il senso e il
ruolo di un teologare sessuato.

Di
quale Dio facciamo esperienza? Di un Dio vicino, talmente implicato
nella vicenda umana da riuscire a trasformare
e aprire la creaturalità se solo gli venga permesso. È questo Dio che
incrociamo nella vita ed è questo Dio che, da studiose, vogliamo
indagare.

A
partire da quella relazione vitale che abbiamo con Lui. Una relazione
che, essendo reale e non virtuale, vive
la dinamicità di tutte le esperienze vere e si trasforma continuamente.
Siamo noi a cambiare. Noi, a contatto con Dio, ci trasformiamo, ci
modifichiamo.

Certo,
non abbiamo sempre chiari i dinamismi che ci coinvolgono, non sappiamo
sempre con certezza individuare i
nostri spostamenti nel mondo e quasi mai notiamo che, improvvisamente,
alcune cose non ci interessano più mentre altre, fino a quel momento
trascurate, ci diventano essenziali. Non si tratta di arrendersi
davanti all’opacità
del soggetto, ma di provare a fermare, mentre ci muove, il trascendente
che opera in noi. Sarà un istante fuggevole e non sarà facile metterlo
a tema. Ma è il caso di tentare.

Vedere
come cambiamo in relazione alla frequentazione di Dio, allo stare
presso di Lui, non è dunque un ripiegamento
su di sé, una chiusura nell’autoreferenzialità. È invece cogliere, nel
me-trasformata, Colui che è trasformante, fare esperienza del Suo modo
di toccare le creature lasciandole essere spingendole
a cambiare proprio attraverso questa accettazione totale e
incondizionata.

Ecco dunque perché ci interessa sapere chi e come siamo. Riflettere su come siamo oggi per riuscire a cogliere,
domani, come non siamo più o come saremo diventati.

L’indiamento
allora, a cui il cristiano tende, non impone di disfarsi della domanda
identitaria. Anzi, chiede
di assumerla dentro l’orizzonte del rapporto con Dio perché funzionerà
come possibilità di accesso a Lui, se mantenuta in sospensione.

Ecco
allora che cosa significa “fare una teologia di genere”: integrare nel
discorso la propria identità
femminile, ritenendola motore fondamentale della ricerca, condizione
imprescindibile della verità di quello che si dice. Una verità che,
scaturendo da un pensiero situato e precisamente collocato nel mondo,
appare
parziale, mai esaustiva. Tuttavia è proprio questa marginalità a
renderla “vera”.

Lucia Vantini