Relazione d. Paolo Giannoni

La forza del Vangelo proclamato da Gesù
che ha assunto ogni realtà umana, ha “toccato” i corpi per infondere la
guarigione, si è seduto a mensa con i peccatori, rendendo visibile ai nostri
occhi e palpabile dalle nostre mani il mistero dell’amore trinitario
.


 

Il “catalogo” ora proposto da Peyretti è una
espressione del disagio che proviamo noi-chiesa. Non ce ne impadroniamo, ma lo
accogliamo con la coscienza che nessuno è padrone della fede degli altri, ma
solo ha da vivere un servizio alla
gioia di tutti (2 Cor 1,24). Lo accogliamo anche come un segno positivo. Il
silenzio deve preoccupare più di una protesta e il disagio segnala che c’è
qualcosa che non va. Alcuni trasformano questo disagio in una decisione di
secessione. Noi qui ne facciamo uno stimolo per un cammino sinodale e vogliamo
invocare un metodo di camminare insieme non già semplicemente dicendolo in
teoria, ma vivendolo in questa pratica. Infatti non ci blocchiamo in una
stagione di contrasti, che consideriamo passata; non ci fermiamo ad affermare
l’esistenza di una zona grigia, data da uno scisma strisciante. Sarebbe restare
fermi a riproporre temi del passato, che certo portano all’oggi, ma sono
sterili se non diventano – come già sono –uno stimolo :come l’ebraico di Gesù
divenne il greco del nuoto testamento e poi il latino della vulgata, così ora,
ancora, il linguaggio del vangelo ha da farsi nell’alfabeto e nei moduli della
stagione umana attuale. Fu questo l’intento del Vaticano II che lo visse nei
termini veraci della sua epoca; noi abbiamo da viverlo nei termini della
veracità attuale, che ancora declina la verità di Dio “la cosa “ di Dio e
dell’uomo, nei termini di una veracità
epocale, che – come sempre – è una kenosi, uno svuotamento della verità di Dio,
ma anche la sua manifestazione nella nostra storia. La ricchezza molteplici
delle voci che abbiamo ascoltato ci dà la gioia della convinzione di una
confluenza nella fede che fa vivere noi-chiesa come una unità, come la veste di Cristo tessuta tutta d’un pezzo,
arricchita dai molti colori che adornavano la veste di Giuseppe fatta da
Giacobbe. E’ glorioso constatare che l’unguento dello Spirito si unisce alle
secrezioni uniche e irripetibili di ogni uomo/donna, di ogni comunità, di ogni
epoca, per formare quella fragranza per la quale la verità divina si fa
veracità storica. Per questo, superando ogni metodo di esclusione, che negli
ultimi decenni ha ferito la chiesa facendola priva di preziose energie, invochiamo un convenire dei diversi
per la ricchezza comune.

I. la ricchezza del vangelo

1. Questo convenire vuole
prendere luce dal grande simbolo
evangelico del “toccare”.

Israele ha il senso realistico
della potenza del male, che attenta alla autenticità del popolo di Dio. Perciò
imposta la legge di purità specie nella sfera del culto. Così nasce il codice
di purità (Lev 11-16,cui succede il codice di santità in Lev 17-26). In questo
quadro il verbo“naga’-toccare” indica il contatto con la sfera
dell’immondo,mentre “le due sfere (vita e morte, puro e impuro, sacro e
profano) non devono entrare in contatto e se ciò avviene i risultati sono
comunque rovinosi” (L. Schhwienhorst in Grande Lessico dell’AT 5,597).

Ma Gesù tocca. In continuità col
farsi carne del Verbo, egli si fa anche carne impura: toccando il lebbroso, il cadavere della bimba di Giairo,
facendosi toccare dalla donna malata di perdite di sangue e dalla donna
peccatrice, andando a mangiare con i peccatori, entrando nel pretorio di
Pilato, egli si contamina e diventa carne offesa dal peccato,dalla malattia e dalla morte. In questo gesto
si anticipa la passione nella quale egli – messo fuori della comunità (Mc 15,20) – diventa il maledetto (Gal 3, 13-14)
e viene fatto peccato (2 Cor 5, 21), fino all’estrema immondezza della
condizione di cadavere.

Ma in questo avviene il contrappasso della salvezza segnato
dai verbi della resurrezione (“egeiro-svegliare” e “anistemi-sorgere”) che risuonano per la bimba di Giairo (Mc 5,41 e
42),per la suocera di Pietro (Mc 1,31),per il paralitico (Lc 5, 24), per lui
stesso (Mc 16,6). Dio diventa immondo, ma la benedizione passa a tutti e noi abbiamo ricevuto la promessa dello
Spirito. Cristo è fatto peccato e noi siamo diventati giustizia di Dio. Come
Cristo è risuscitato dai morti, anche noi possiamo camminare in una vita nuova
(Rom 6,4).Pertanto Gesù è il serpente
che da sorgente di veleno e di morte diventa fonte di salvezza e di vita (Gv 3,
14 con 12, 32).

Questo fa comprendere che il
“toccare” di Gesù non è banalizzabile a una forma polemica di evasione dalle formalità esose della legge. Qui c’è di
più. Il suo toccare rivela che ora con Gesù (Lc 11,20 -22) è giunto uno più
forte. Ora il Santo in Gesù si fa nostro consanguineo nel vivere il dramma del
sangue-vita che si disperde, ma in questo modo la vita umana e la storia sono
salvate dalla santità di Dio.

Il sangue diventa redenzione.
Qui avviene un displuvio fra legge e vangelo e conseguentemente viene superata
una chiesa ridotta ad agenzia di etica sulla base di un vangelo ridotto a
codice di morale, perché sia una chiesa della mistagogia, della animazione del mistero della salvezza che lo
Spirito santo opera nella storia. Lo Spirito assume la strettura e il gemito
delle creature e lo libera davanti a Dio (Rom 8,26-27).Allo stesso modo Gesù
vive la strettura dell’uomo muto perché sordo (Mc 6,34) e lo libera
nell’“effatà”. Da allora la stretta di Acor è diventata porta di speranza (Os
2,17).

Nel gesto del toccare e nella
strettura di Cristo e dello Spirito, Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza
e nell’effatà egli è stato misericordia per tutti (Rom 11, 32). E la chiesa,
sacramento che nella storia continua la presenza di Gesù (LG 1), è perciò
chiesa della misericordia.

2. Ma in tutto questo si
manifesta la serietà del “toccare” di Cristo
. Lo scambio che esso determina
mette in totale evidenza la serietà del caso di Dio,del caso dell’uomo,del caso
del peccato. Il Cristo peccato, maledizione e cadavere misura la pesantezza del
male e rivela la serietà di tutti gli inferni della storia. La misericordia è
reale giudizio, perché afferma l’esistenza della miseria, ma questa non viene
abbandonata,perché vi si porta il cuore di un forte che ama e così essa viene
illuminata dalla luce di un giudizio di potente salvezza. La voce e l’anima del
crocifisso esprimono l’angoscia essenziale del peccato e della morte come
abbandono di Dio (Mt 27,46) ma è anche (la paràklesi) il fatto che Dio chiama
se stesso a stare con l’uomo. Cristo come immondo è in grado di sentire giusta
compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. Essendo lui stesso
rivestito di debolezza (Ebr 5,2) come Dio di misericordia sta dinanzi al Dio
della giustizia e chiede il perdono (Lc
23, 34). “Fattosi più profondo dell’abisso della morte, Cristo lo ha trasceso
portandolo sulle sue spalle” (s. Gregorio).

3. Ma questa “gloria” che rivela il “chi è” di Cristo rivela
anche il profondo essere di Dio. Lo afferma la parola di Gesù: “quando avrete
innalzato da terra il figlio dell’uomo,allora conoscerete che IO-SONO” (Gv 8,
28). Il nome non dicibile di Es 3, 14 si rivela nelle fattezze del volto
dell’“innalzato”.

Ma in questo anche si rivela la verità umana,perché l’uomo
voluto come immagine-ombra (“besalmenu”) di Dio (Gen 1,26) trova la sua piena
verità nell’“Adamo adempiuto”, il Cristo risorto (I Cor 15, 45). La compassione
uterina di Dio riporta in vita i due figli che in maniera diversa hanno ucciso
il Padre, l’uno prevenendo il tempo della morte,l’altro riducendolo a padrone.
Così essi sono diventati esuli da se stessi, esuli anche se rimasti in casa. Ma
il Padre esce dalla casa, Dio si esula da se stesso,perché facendosi vicino ai
figli, essi non siano più esuli. Questa è la condizione comune nostra. Ma solo
chi ha vissuto nel suo profondo l’Acheronte, il fiume infernale che scorre
dentro la propria umanità, capisce la giusta follia di un pastore che lascia le 99 nel deserto per cercare la
smarrita, una stoltezza che rivela l’amore verso l’unico e irripetibile essere
di ogni singola persona.

Questo è il Gesù-vangelo (Mc 1,1) che ci è stato consegnato.
Questa è la narrazione (“exegesato”) di Dio da parte del Verbo fatto carne, che
è sempre rivolto verso il suo seno fontale (Gv 1,18): ora e così
l’inconoscibile Dio è rivelato. Nel silenzio del sabato santo della sepoltura
Dio dice la sua più alta parola (H.U. von Balthasar).

4 .Non è il dio della
metafisica, certo grande e bellissimo. Qui c’è di più: c’è il Dio di Gesù
Cristo.
E’ un Dio che in se stesso contiene l’altro (Lateranense IV). Il
suo modo di essere non è segnato dalla
chiusura nel proprio infinito essere, ma dalla relazione, dall’essere verso
l’altro (Fiorentino). (1)

Da questo Dio deriva e di questo
Dio partecipa la chiesa , il cui “mistero primordiale” (C.Moeller) è espresso
in Lumen gentium 4: “Ecclesia sicuti de unitate Patris et Filii et Spiritus
sancti plebs adunata”

Questa è la genealogia per la
quale la chiesa è “in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento
dell’intima comunione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”(Lumen
gentium 1). Il “toccare” di Gesù rimanda necessariamente all’intimo essere unitario
di Dio nella relazione. (Nota 2) Questo “toccare” è norma essenziale
dell’essere chiesa

II. Per conseguenza

il controcanto del male non è il
giudizio che condanna, ma il giudizio di misericordia che assume e trasforma le
piaghe da fonti di dolore in sorgenti di energia: “Davvero era necessario il
peccato di Adamo che è stato distrutto dalla morte di Cristo. O felice colpa
che meritò di avere un così grande redentore”. E’ il redentore non la colpa che
misura la verità del peccato e la verità del male che avvelena la storia. E
questo redentore,

1. Cristo, non è escludente
ma assuntivo
: fa sua tutta l’umanità. Era questa la intuizione
dell’umanesimo teologico del Cusano e dell’arte del Beato Angelico che nella
Trasfigurazione di s. Marco dipinge nel Cristo trasfigurato l’uomo vitruviano.
Cristo assume l’intera umanità, compreso il peccato, il dolore, la disperazione
e la morte. Ne consegue che va superato il criterio di ogni esclusione e di
ogni contestazione.

Continuare ad escluderci e a
condannare significa chiudere il messaggio cristiano dentro la cornice di ciò a
cui ci si oppone. Noi abbiamo da dire e da dirci la lieta ventura del vangelo,
da vivificare l’umano col divino di Cristo. Il “buon” (“eu”) annunzio non è
parola ma Cristo stesso (Mc 1,1).In Cristo finalmente tutte le creature sono
quel bello-buono inteso dal creatore, perché Cristo risorto ha vinto la morte e
la falsificazione del peccato. Questa umanità e questa storia è redenta. Nel
profondo della storia c’è e sta la pasqua con la pentecoste, come segreto del mistero che è ogni creatura. E’
questa la grande fede.

2. Così è svelata la verità
della creazione che non è un discorso sulle origini,ma la gloriosa rivelazione
che in qualsiasi creatura resta invincibile l’impronta di Dio che l’ha fatta.
Di più: ora dentro la storia sta il Dio fatto carne e il suo Spirito.
Noi-chiesa abbiamo da sentire e da annunziare che ogni creatura è forma di Dio.
In ogni essere c’è il seme del Verbo e noi – anche quando veniamo chiamati
“cornacchie” – rimaniamo “spermatologoi” “raccoglitori di semi” (è la
bellissima ironia di At 17,18 con cui viene qualificato Paolo ad Atene).Noi
rimaniamo consorti della Chiesa da Adamo, da Abele, da Noè e sappiamo di essere
nella genealogia paradossale che risale da Gesù figlio di Giuseppe ad Adamo
figlio di Dio (Lc 3, 23 e 38). Noi abbiamo la lieta ventura di salutare il
“terzo testamento” (Clemente Alessandrino) che è la sapienza greca, la sapienza
del nostro mondo attuale con le sue “nuove vie verso la verità” (Gaudium et spes
44), la sapienza di quanti sinceramente cercano Dio (Lumen gentium 16).

3. Certo tutto questo
costituisce una via complessa, che vuole la fatica della scienza, della conoscenza e della sapienza,
ma il vangelo della riconciliazione ci esorta alla fatica di sciogliere e con
pazienza i nodi invece della falsa risoluzione che li taglia. Vivendo una
povertà che rinunzia alla pulsione del potere, viviamo la pazienza dei tempi di
Dio, questo mistero sconcertante per cui passano milioni di anni di un farsi
umano fino a Cristo. Milioni di anni e di persone senza salvezza? La fede di
Dante ha colto la verità che il mistero della salvezza forma un’unica rosa dei
beati in Cristo venturo e dei beati in Cristo venuto (“l’uno e l’altro aspetto
de la fede – igualmente empierà questo giardino”;Par 32, 38-39; questo è
“l’alto proveder divino”; ivi vs 37). Con questa lieta certezza la fede,
segnata dalla escatologia che non significa “ultime cose”, ma “pienezza di
vita”, già data nella pasqua ma da realizzarsi nella pienezza finale, vuole e
deve fare della storia (“umbriferi prefazi”) un processo di parziale ma vero
anticipo della pienezza che dall’onda viva di Cristo si è sparsa nel mondo
(quell’onda “che si deriva perché vi s’immegli”;Par 30,87). Sogno? futilità
illusa? Ingenuità o addirittura connivenza? Ma certo connivenza con la
forma e con il metodo di Dio!

4. E non sia questo una
faciloneria,perché è travaglio. Quello per cui dalla serietà del male
come appare dal “toccare sanante” di Cristo si guarda con verità severa ad ogni
inferno,per riprovare tutto ciò che distrugge Dio e distrugge l’umanità e
l’universo, tentando e approvando un cammino di misericordia per la redenzione.
Per questo la chiesa ed ogni cristiano “si sforza di capire le ragioni della
negazione di Dio [e negazione di Dio non è solo l’ateismo, ma ogni volgarità
che falsifica la gloria di Dio che è l’uomo vivente, ogni blocco della vita
dell’uomo che è la grazia, ma anche la libertà] e consapevole delle questioni
suscitate dall’ateismo e mossa da carità verso tutti gli uomini ritiene che
esse debbano meritare un esame più serio e più profondo” (Gaudium et spes 21).
Parlare e vivere così non nasce all’illusione di una chiesa in tempi di
entusiastico “sviluppo”, ma è la faticosa necessità di cogliere le ragioni di
chi non ha ragione o al quale non possiamo dare ragione, stabilendo proprio in
quelle ragioni un campo di dialogo. E questo metodo – sia chiaro – non va solo verso il cosiddetto esterno della
chiesa, ma anche vive verso qualsiasi persona che è dentro, perché condanna
tutti i sinedri, anche i sinedri progressisti, coloro che reputano maledetta la gente che non conosce la legge a
differenza dei capi e dei farisei che conoscendola hanno il diritto di essere
riconosciuti come partecipi del vero e quindi avere autorità nel loro rifiuto
(Gv 7, 47-49).

5. Qui si aprirebbe una discorso
circa le conseguenze sulla vita della chiesa, che non è il caso di fare,
anche perché Pino Ruggieri presenterà tre proposte di prospettiva
ecclesiale Solo tre note di metodo.

a) Siamo tutti “cumpetentes”,
ricercatori nella fraternità del desiderio, in cammino sulla strada verso la
pienezza. Siamo fra i tempi e il cammino è di speranza che non vede (Rom
8,24-25), fatto di certezza ma non di sicurezze,perché le sicurezze di farebbero
schiavi e invece lo Spirito ci ha dato un cuore di figli (J.H. Newman). Questo
esclude le tuttologie di un corpo oligarchico, ma richiede la sinodalità e la
collegialità. Da qui la necessità di un convenire che la chiesa italiana aveva
posto come propria prospettiva a Loreto nell’85. Sull’autorità del vescovo
Ballestrero che l’aveva proposto, anche noi chiediamo che l’episcopato sia il
ministero della sintesi e non la sintesi dei ministeri.

b) Una chiesa non di minoranza
(anche se sociologicamente questa è la misura) ma di “diaspora”: una
disseminazione dei semi del Verbo e dello Spirito che possono incontrare i semi
del Verbo e dello Spirito che il Padre ovunque ha sparso.

c) Va subito aggiunto che la
scelta di una chiesa dell’evangelo (al posto di una chiesa della legge) cambia
i termini
del pensare e dell’agire. (nota 3)

In verità il “convenire” sul
vangelo richiede che i termini che usiamo abbiano il sapore e la valenza che
viene loro dall’evangelo, da quel Gesù-vangelo (Mc 1,1) che è e dona pienezza ad ogni realtà umana. Pertanto termini come “coscienza”,
“libertà”, “prassi”, “verità”, “vita” ed ogni altra categoria occorrente nella
discussione morale,assumono un significato diverso da quello etico (nota 4).
L’etica è filosofia prima, dice Levinas, ma la scrittura apostolica (“diòti”,
“oùn”) ricorda che essa è teologia seconda. Una chiesa che intende fare
veracità nella storia sa e deve sapere che ogni parola evangelica (ma secondo
Lacan anche ogni parola) ha dentro di sé un di più. Da qui un metodo di fedeltà
all’uomo come fedeltà all’“eschatos Adam” (I Cor 15, 45) nel quale è la
pienezza dell’uomo e dal quale si riverbera la luce che invera ogni tratto di
umanità. E Cristo è luce solo come rivelazione del volto di Dio nello
svuotamento di Dio. In verità la nostra ricchezza è segnata dalla “salutare
finitudine della rivelazione” (P.A. Sequeri). Questo ci porta una grossa fatica,perché nel dialogo non possiamo
ridurci nel campo di un minimo comune denominatore di tipo razionale o
“naturale”. Abbiamo da mediare la luce del vangelo, con un continuo riferimento
cristologico nel discorso antropologico (è il metodo della Gaudium et spes nei
paragrafi conclusivi dei capitoli della “esposizione introduttiva” ai nn. 10,
22, 32, 39 e 45)

Il metodo che questa nostra
convocazione propone, trova qui un altro motivo per dire che permanere in una
condizione di contestazione è fuori verità, sia dentro la chiesa che fuori, sia
dall’alto che dal basso. E’ altra la forma nella quale tutto deve realizzarsi.
Il glorioso ministero di cui siamo incaricati è il servizio perché si tenti e
si realizzi la “confibrazione”(Cassiano) della luce della verità del Verbo e
della luce della carne umana, perché ancora come a Nazareth avvenga la carne
una dei due,perché ancora nel giardino della pasqua avvenga l’incontro del
nuovo Adamo con la nuova Eva. “Dio che disse “Rifulga la luce dalle tenebre”,
rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio
sul volto di Cristo” (2 Cor 4, 6).

Nel concludere questo discorso
che mai ha voluto essere affermazione di diritti, perché ha voluto essere invocazione di chiesa, sia permesso
riprendere la grande invocazione di Guglielmo di st Thierry:“O Dio degno di adorazione,tu che susciti
tremore e benedizione, donaci, manda il tuo Spirito e tutti saranno creati e
rinnoverai la faccia della terra. Non è nell’irrompere di molte acque,
nell’agitazione e nel disordine di molti e diversi affetti che le tue creature
potranno raggiungere Dio. E’ durata abbastanza, Signore, questa catastrofe,
questo castigo dei figli di Adamo [e dei figli della chiesa]. Fa’ passare lo
Spirito sulla terra, onde si ritiri il mare, si ritiri la salsedine dell’antica
condanna e appaia l’asciutto assetato della fonte della vita. Venga la colomba,
lo Spirito santo e sia invece cacciato il corvo ripugnante che si getta sui
suoi cadaveri. Venga la colomba dal ramo d’olivo, ramo del ristoro e della
luce, ad annunziare la pace. Ci
santifichi la tua santità, ci unisca la tua unità. E così, grazie al nome di
amore, saremo associati come per una affinità di parentela a Dio che è amore:la
potenza di questo nome ci unirà a te” ( De contemplando Deo, 11,8).

 

Fuori testo

Nota 1 Quello che abbiamo detto in un tratto
brevissimo è la configurazione di un dio diverso da quello- pure stupendo,ma
altro – della metafisica. In pratica noi siamo una chiesa che è segnata dal
fatto che dal 4.2.1442 (“Cantate
Domino”, il “decretum pro Jacobitis”) bisogna giungere al 9.5. 1897 (“Divinum
illud” di Leone XIII) per avere un documento di magistero notevole che viva una
teologia trinitaria (ci rifacciamo alla notazione in grassetto dei testi
importanti presentata dal Denzinger-Schoenmetzer, pur ricordando gli interventi
minori: la “Cum quorundam hominum” del 7.8.1555 circa i Sociniani, sul problema
iconografico trinitario nella “Auctorem
fidei” del 16.9. 1788 sul sinodo di Pistoia, e gli interventi sul “vim rationis
plus aequo extollere” anche circa il dogma trinitario genericamente per Hermes (breve “Dum acerbissimas” del 26.9, 1835)
e specificamente per Gunther ( breve
“Eximiam tam” del 15.6.1857) e per Rosmini nel decreto “Post obitum” del
14.12.1887). Noi abbiamo vissuto
un’eclisse trinitaria, del Dio di Gesù Cristo a favore di un dio di tenore
metafisico e questo ha segnato la teologia e laporassi della oistra chiesa.

 

Nota 2 Occorre entrare
nel vivo dell’unitrinità e non solo nello sviluppare l’interesse trinitario
secondo una formula triteistica (come è avvenuto nei tre anni di preparazione
al giubileo del 2000).Non è una questione teoretica di alto livello, ma la
segnalazione che qui sta il centro di una differenza teologica nella chiesa.
Altro è la forma economica triteistica che scoglie il paradosso nodale della
trinità che è appunto la fede in un Dio relazionale, in un Dio che in se stesso
ha l’alterità. Difatto la formula triteistica che mette in evidenza giustamente
la portata salvifica, non si accolla la gravità della partecipazione
(Y.Congar-Piero Rossano in Mysterium salutis, v. 7, Queriniana BS 1972, 496
Aveva ragione dom Beauduin a chiamare “bomba atomica della teologia” il tema
della partecipazione cit ivi 155). In pratica e a modo di conclusione netta: la
chiesa è autentica se è relazionale e non chiusa in se stessa, se sa contenere
le alterità dentro la sua unità. Se, come Cristo,non si definisce per se stessa
ma in forza della divinità della grazia e dell’umanità assunta. Un tratto di
maturità dell’ “una mystica persona” è la sua capacità di relazione, di non
essere in se ma verso l’altro, vivendo
la potenza dell’unità dei molteplici,la riconciliazione dei diversi, la
chiamata della multiformità, come rifrazione dell’intera totalità della forma
divina nelle creature (e qui si apre anche la funzione cosmologica della
chiesa, per una sorta di ecclesiologia ecologica, in nome e per obbedienza alla
capitalità cosmica di Cristo). Si tratta di una struttura che vive
ecumenicamente non solo con le altre chiese, ma con ogni creatura.

Da qui anche la forma
dell’ascesi come armonizzazione dei particolari nella sinfonia guidata dall’
“Archimusico”(L.Spitzer).

 

Nota 3 Sembra a volte che noi-chiesa si vada verso una latenza se non un tramonto Certo è che
l’attuale tipo di chiesa cambierà, se non altro perché venendo a mancare un
sufficiente numero di preti per convinzione o per disperazione dovrà cambiare
il metodo pastorale.

Ma è augurabile che questo
fra altri segnali, metta in evidenza la necessità di una metodologia di incarnazione che viva la fatica del declinare la verità di Dio (sempre nello statuto
ossimorico di kenosi-rivelazione) in una veracità epocale, ben sapendo che
sempre e dovunque l’atto del credente ha per termine non una formula teoretica o pratica, che è
sempre ipotetica, ma “la cosa di Dio” (“actus credentis non terminatur ad
enuntiabile sed ad rem”. S. Tommaso, Summa theologica II-II,1,2 ad 2).

 

Nota 4.Ovviamente non
possiamo entrare in queste tematiche.Limitandoci a un solo brevissimo cenno,
vogliamo solo dire che, per esempio, teologicamente parlando la libertà come
libero arbitrio è reale, ma già s.Agostino parlava di una “libertas maior”, di
una “libertas perfecta”, una concezione che va oltre la concezione
antropologica per una concezione escatologica. In questa luce possiamo cogliere
quanto J.B.Metz intende dire quando parla della libertà come “libertà
dell’essere”,”potenza radicale dell’uomo”, “potenza della totalità”, “facoltà
del definitivo”(si legga la sintesi proposta in Dizionario teologico,
Queriniana, Brescia 1967, v.2 pp.195-202). Non siamo lontani da quanto si dice
con la categoria dell’eros e di un bencapito “Wille zur Macht” di Nietzsche, se
accettiamo la lettura data da M.Heidegger in Sentieri erranti nella selva,
Bompiani,MI 2002, 209-316