da L’Espresso: N.45 anno LV 12 novembre 2009
Un giorno gli ho rotto la testa
Le mie prime cose le ho scritte sulle pietre di casa, c’erano le case disastrate, così mi sedevo su una pietra e sull’altra scrivevo. Con la penna o la matita, ma forse la penna non c’era, quindi con il lapis, e su dei fogli trovati qua e là. Avevo 15, 16 anni. Ero un’enfant prodige, una secchiona. Fra chiesa e letteratura ho dato proprio tanto. Però niente università perché al liceo Manzoni mi hanno respinta in italiano e dopo non mi hanno mai più vista. Così ho frequentato l’Istituto professionale Solera Mantegazza. Ero un genio io, invece mi hanno detto che ero confusa, perfino che non capivo un tubo. Insomma ho avuto una vita normale, è dopo che è successo il patatrac. È successo che mio marito si è innamorato di qualcun’altra, penso, ma non ne ho mai avuto le prove, è una vita che le cerco invano. Cerco le prove di chi abbia fatto questa cazzata, ero una ragazza troppo tranquilla, forse lui aveva un’amante. È da lì che ho iniziato a grattarmi le mani, una psoriasi inguaribile che ho ancora oggi: ma è un tale piacere grattarsi che spiace rinunciarci.
Lui ha incontrato un’altra donna, io sono stata sempre molto
cornuta, ma non soffrivo di gelosia. Soffrivo e basta. Io stavo a casa
con le figlie, mi occupavo della casa. Un giorno l’ho quasi ammazzato:
non tornava mai, giocava, allora ho preso una sedia enorme, non so come
ho fatto a trovare tanta forza, e gliel’ho spaccata in testa. Gli ho
rotto la testa, poi ho chiamato l’ambulanza. Non ho mai capito come ho
fatto a sollevare quella sedia, io così gracile. Non volevo ammazzarlo,
volevo dargli semplicemente una cadregata, gli ho spaccato la testa,
siamo finiti tutti e due in ospedale, lui era molto incazzato, ma io
non pensavo di essere così forte. Mi sentivo debole. Volevo dargli una
lezione, vedevo i miei figli che pativano la fame, lui giocava, andava
con gli amici e spendeva tutto, stava via anche intere settimane. Mi è
scattata l’ira, ero stanca, che poi il panettiere guadagna molto. Era
un continuo illudersi: adesso cambia, non cambia, insomma quando è
finita è stata una liberazione quasi. Se non ci fossero state le
bambine, le mamme sono così quando ci sono bambini, si armano di
pazienza. Comandavano gli uomini a quei tempi, la donna era succube,
noi eravamo già predisposte a questa sottomissione. Le donne hanno una
posizione diversa ora, nessuno osa più picchiarle come un tempo, io
venivo picchiata molto quando lui era ubriaco, ma sopportavo, cambierà,
cambierà, invece sono cambiata io ma in meglio. Trentasei amanti ho
avuto dopo, sono tanti? Nel 1965 mi hanno ricoverata al Paolo Pini a
Milano, istituto psichiatrico: dieci anni inenarrabili che in parte
sono un buco nero, no, ricordo poco e se ricordo non parlerei comunque.
Non parlerei mai di questo alla gente. È raro diventare un’Alda Merini,
perché tutti vorrebbero ammazzarlo il poeta, perché è un diverso,
perché gli altri sono invidiosi. Dicono: sì è brava però intanto è in
galera. In manicomio è stato uno sterminio, sono morti tutti i miei
amici.
In manicomio c’è la felicità
Ci davano anche gli estrogeni, e psicofarmaci a palate, mangiavamo
pochissimo, ero una larva, eravamo tutti denutriti. E oggi mi dicono
che sono sovrappeso!
Non so come sia ora il Pini, so che lì ballano
e cantano, non ci sono più tornata. Mi hanno invitata ma non sono
andata. Per me è stato un miracolo di Dio essere uscita viva da lì. Ho
visto morire tanti ragazzi. Mi ha salvata mio marito che veniva a
trovarmi, perché chi non aveva nessuno scompariva all’improvviso nel
nulla. Quando sono uscita è cominciata un’altra tragedia. Spesso mi
sono detta stavo meglio lì. Però il problema della sessualità va
ridimensionato, anche se ti riempono la testa, io posso scopare di qua,
io di là; io invece non ho fatto l’amore per molti anni, ma non ho
sofferto per questo. Fare l’amore diventa anche un’abitudine, oggi gli
si dà un peso eccessivo. Molto più male mi ha fatto il ripudio di mio
marito, la mancanza di amore. Forse quello che fa ancora più male del
ripudio è la gelosia: vedere il proprio uomo con un’altra donna, non ho
mai saputo chi fosse, ho delle supposizioni, ma nessuna certezza. Anche
se la trovassi però non le darei mai due sberle, io alla fine in
manicomio ho trovato la felicità, ho trovato la mia dimensione di
donna, non ho più scritto, grazie a Dio non ho più visto né giornalisti
né editori: ero matta in mezzo ai matti. Sono stati anni stupendi. I
matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti, sono nate lì
le mie più belle amicizie, ma ora sono morti tutti. Vanni Scheiwiller,
fra i miei primi editori, diceva: fra i grandi amici di Alda Merini
metti anche me, che son matto anch’io. I matti sono quelli che
avrebbero dato la vita per me. Quando sono uscita ero contenta come
quando passa un mal di denti, però i miei matti mi hanno coperto, mi
hanno portato la minestra, mi hanno coccolato, mi hanno voluto molto
bene. Ero giovane, qualcuno mi diceva: però che belle gambe che hai,
dopo mi mancavano molto. I matti sono simpatici, non così i dementi,
che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo,
quando sono uscita: quelli che dicono questa bottiglia deve stare qui,
come Sirchia che dice qui non si fuma, e noi invece fumiamo. Sono
italiana e sprecona, faccio solo due tiri dalle sigarette. Fumo come
una matta dai tempi del manicomio. Si stava di un bene. In ospedale
invece, al Redaelli, cominciano: si cambi la maglietta, si faccia il
bagno, che palle. Come ho fatto a rientrare in tutte queste regoline?
Ci sono rientrata il giorno in cui il direttore del manicomio, Aldo
Dubbiani, mi ha dimessa: per noi tutti è stato un padre, era
cardiopatico, noi andavamo da lui e ci chiedeva se volevamo andare a
fare un giro, poi ci dava cento lire, significava che avevamo il
permesso di uscire. Allora quando sono uscita per sempre, prima
qualcuno (non so più chi) mi ha dato dei soldi, ma non cento lire, di
più: ho capito che in quei soldi c’era il valore della libertà. Il
manicomio è una follia anche come concetto: bisogna essere matti per
fondare un manicomio. Sono andata, sono tornata a casa mia, dove c’era
ancora Ettore. Dove dovevo andare? Ancora oggi è casa mia, però la odio
un po’, perché è tutta un rebelot. Lui intanto è morto in un modo
atroce, di cancro. Sono tornata a casa dal manicomio e mio marito mi ha
detto: «Ah, sei tornata»; la panetteria l’aveva venduta, aveva cambiato
lavoro e ho passato fra gli anni più belli della mia vita. Mio marito
mi ha aiutata a tornare alla vita fuori dal manicomio, prima mi ha
fatto ricoverare poi mi ha tanto aiutata, si vede che era pentito,
l’avranno consigliato male. Poi lì non si paga, allora mettiamola lì,
si sarà detto. Dopo sono rimasta vedova, ero sola, nel 1983 ho sposato
Michele, medico e poeta tarantino: aveva 86 anni, lo avevo conosciuto
da giovane, è stato un grande amore, anche lui era un poeta, ma fra di
noi non c’era attrazione sessuale. Lui mi diceva che era solo, allora
visto che anch’io ero a Milano da sola, sono andata a Taranto da lui.
Ero giovane e vivacissima, così i figli hanno cominciato a dire che
l’avevo sposato per interesse. Quando toccavo le sue tasche erano piene
di soldi, perdeva soldi dappertutto, non ci badava, era via con la
testa, forse per demenza senile, ma era stato un grande chirurgo.
Prendevo tutti quei soldi e li spendevo, c’erano soldi dappertutto, ma
quando i figli se ne sono accorti hanno cominciato a farmi la guerra.
Ha lasciato a me tutta l’eredità, ai figli niente, hanno sofferto
molto.
Odio gli euro, sono orribili
Oggi vivo con la pensione di mio marito e con il denaro della legge
Bacchelli: 6 milioni di vecchie lire ogni tre mesi, in euro bah, io li
odio gli euro, sono orribili, sbaglio sempre con i resti. Adesso
vorrebbero darmi un milione in più al mese, da quello che hanno detto,
a titolo di regalo, ma non ho ancora visto niente. Sul conto corrente
non ho niente, zero fisso. Gli editori pagano a sei mesi, io ho un
agente, il 20 per cento se lo prende lui, non mi fa neanche vedere
l’assegno. Il “Magnificat” ha venduto oltre 20 mila copie e io non ho i
soldi per l’affitto. La legge Bacchelli è un aiuto effettivamente,
pensata in modo che il poeta non debba avere problemi che lo distolgano
dal suo scrivere. Ti toglie le ambasce di pagare il telefono, l’acqua,
la luce, la casa, così poi puoi scrivere tranquillo. E va a finire che
scrivi l’Erniade, cioè la storia dell’ernia, invece dell’Iliade: è la
quarta volta che mi operano all’ernia. E sono finita in rianimazione,
terribile, un mese fa, dolorosissima, ti riempiono di farmaci,
catetere, non senti dolore, non senti niente, il brutto arriva dopo.
Dopo anni di manicomio ho cercato di dimenticare le sofferenze, anche
quelle degli altri, perché sennò diventa un’ossessione. Se non ho
voglia di alzarmi non mi alzo, si logora la vita se ci si forza troppo.
Poi ho un altro antidoto quando mi viene la depressione, ancora adesso,
vado giù a comperare qualcosa che non mi serve, mentini, roba così, poi
mi dico, a cosa mi serve? Mi piace uno stile di vita contenuto, sobrio,
prendiamo i frati, mangiano la minestra solo. Tanto più mangiamo,
peggio stiamo. Mi consolo con i tanti amici, tutti giovani e
rispettosi, vengono da me perché mi vogliono conoscere e diventiamo
amici. Alcuni vogliono scrivere ma io li scoraggio. Per amore di Dio
non scrivete, mi fanno leggere le loro cose, ho i cassetti pieni, non
sono un editore. Sono giovani romantici, sognatori. Qualcuno si
innamora di me. Ma come si fa? ■