Dalla Svizzera, un altro abate benedettino critica i ritardi della Chiesa. In Adista del 26/01/13

37014. MARIASTEIN-ADISTA. È un periodo di grande fermento, questo, per la Chiesa svizzera. Dopo la forte presa di posizione di p. Martin Werlen, abate del più importante monastero del Paese, l’abbazia benedettina di Einsiedeln, su ciò che non va nella Chiesa di oggi (v. Adista Notizie n. 1/13), è ora la volta di p. Peter von Sury, dal 2008 a capo dell’abbazia di Mariastein, anch’essa benedettina, la seconda in ordine di rilevanza. In un’intervista all’agenzia cattolica Kipa/Apic (15/12/12), von Sury, canonista, ha puntato il dito contro l’attuale procedura di nomina dei vescovi in Svizzera, del tutto sganciata dal tessuto locale.
Durante il primo millennio, ha spiegato l’abate, tre erano le autorità il cui peso era determinante nella nomina di un nuovo vescovo: i fedeli locali, il clero e i vescovi delle diocesi limitrofe, il cui equivalente, oggi, è la Conferenza episcopale. Questa procedura, tuttavia, dall’XI secolo in avanti ha lentamente perso forza a tutto favore di un esercizio del potere sempre più decisivo da parte di Roma. Il risultato è che oggi le diocesi hanno il mero ruolo di unità amministrative. Ora, afferma von Sury, le motivazioni di politica ecclesiale prevalgono sul benessere delle diocesi, «ed è proprio questo che è sbagliato e a cui vescovi e teologi hanno il dovere di resistere fermamente».
L’effetto deleterio dello scavalcamento della Chiesa locale consiste prettamente nel creare indifferenza: i vescovi che vengono nominati non hanno alcun interesse a mettere in discussione tale procedura, facendo della Chiesa un sistema chiuso che, come tale, non è in grado di accettare critiche o aggiustamenti dall’esterno. «Forse – suggerisce von Sury – dovrà collassare o disintegrarsi, prima che succeda qualcosa. O restare a corto di soldi, e allora, in quel caso, automaticamente arriverà ad una paralisi».
E dire che i vescovi, in quanto successori degli apostoli, hanno un ruolo di primaria importanza: lo ha sancito il Concilio Vaticano II, istituendo i sinodi episcopali, che dovrebbero affrontare questioni di rilevanza universale. Ma fintantoché la loro agenda è definita solo dal papa, afferma l’abate, il sinodo resta una “strada a senso unico”. Ecco, dunque, il terreno sul quale i vescovi «dovrebbero ingaggiare una lotta e difendersi», fissando l’agenda dei sinodi in modo che le questioni più urgenti non siano semplicemente accantonate. Come nel caso, spiega, del celibato obbligatorio e del sacerdozio femminile, temi affrontati ma poi messi da parte al sinodo del 1972.
In fondo, così von Sury, «il vescovo è un pontifex, un costruttore di ponti, e come tale deve avere una personalità inclusiva. Sempre più spesso, invece, abbiamo sperimentato il contrario, come nella diocesi di Coira. Lì il vescovo non è certo un costruttore di ponti, ma uno che semina discordia, e questo produce effetti disastrosi».
Il riferimento è al vescovo della diocesi, mons. Vitus Huonder, ultraconservatore, che di recente ha minacciato di punire gli aderenti al movimento svizzero della “Pfarrei-Initiative”, il gruppo nato lo scorso autunno che raccoglie 460 preti del Paese i quali, sulla scia del quasi omologo movimento austriaco (la “Pfarrer-Initiative”), chiedono a gran voce riforme nella Chiesa, come l’intercomunione (v. Adista Notizie n. 39/12). «A mio parere – commenta von Sury – un vescovo che semina discordia ha l’obbligo morale di dare le dimissioni. Lo stesso per un abate o un parroco. Se seminano discordia, distruggono una parte della Chiesa». Il punto è anche che, a livello di Conferenze episcopali o persino di Chiesa universale, non esiste un organo come il consiglio parrocchiale o presbiterale, cui i vescovi devono rendere conto: «E questo è un grande errore», afferma l’abate di Mariastein. In Germania, spiega, «c’è il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, che fa da controparte alla Conferenza episcopale. Una cosa del genere in Svizzera non esiste».
E dire che, secondo il diritto canonico, «i fedeli hanno il diritto e a volte anche il dovere di dire quello che pensano ai loro vescovi, cioè ai loro pastori: questa è già una buona dichiarazione di intenti». Ma se a questo non corrisponde, poi, alcuna applicazione concreta, ciò non serve a niente. «Insisto ancora sul fatto – conclude l’abate benedettino – che la questione della nomina dei vescovi è urgente e dev’essere gestita in modo completamente diverso. L’esperienza attuale nella Chiesa si regge, sia dal punto di vista della storia della Chiesa sia da quello teologico, su deboli fondamenti». (ludovica eugenio)
da: Adista Notizie n. 3 del 26/01/2013