“Pochi rimpianti e molte speranze di riforma. La base cattolica sulle dimissioni del Papa” con i contributi di Noi siamo chiesa e di Michela Murgia

37054. ROMA-ADISTA. Archiviate le lotte intestine e dimenticati in un batter d’occhio gli scandali e le gaffes che hanno costellato il suo pontificato, è un coro pressoché unanime di apprezzamento quello che si sente intonare in questi giorni per Benedetto XVI, «servitore coraggioso», «innovatore incompreso» che ha compiuto una scelta «umanamente e spiritualmente esemplare».
Ma al di là dei panegirici di radio, stampa e televisione c’è anche chi, nella Chiesa di base, coglie l’occasione delle dimissioni di Ratzinger per porre la questione in una dimensione più ampia, rifiutando la parabola del mite e schivo teologo oppresso dal peso della guida di una Chiesa troppo complessa. E soprattutto sottolineando l’urgenza di una riforma del ministero petrino e della Chiesa in generale.

Sempre reformanda

Così la sezione italiana di Noi siamo Chiesa che evidenzia come, in questo caso, «il tradizionale immobilismo delle norme e delle prassi nella Chiesa cattolica» sia stato «positivamente superato», e auspica che «si vada coraggiosamente e progressivamente in questa direzione anche in altre questioni, a partire dalla modifica della composizione del collegio elettorale del vescovo di Roma perché sia più rappresentativo della ricca e pluralistica realtà di tutto il popolo di Dio».
Stessi “sogni” delle Comunità cristiane di Base: dal «ritorno del papa al ruolo originario di vescovo di Roma» alla «rinuncia al centralismo monolitico vaticano a favore di una ampia e diffusa collegialità nelle decisioni, fino ad arrivare ad un rispetto del pluralismo e della libertà dei figli e delle figlie di Dio riuniti in comunità locali vive e non in strutture puramente dispensatrici di sacramenti».
Sulla medesima lunghezza d’onda le Acli di Arezzo che si augurano che questa nuova fase diventi «occasione di riforme all’interno della nostra Chiesa per renderla sempre più rispondente alle mutate esigenze della storia»: «Si apre così la strada per ripensare volti, ruoli e funzioni di istituzioni millenarie che, in un periodo di profonde trasformazioni, è una necessità sempre più impellente. Non è il Vangelo che cambia – concludono le Acli aretine –, ma siamo noi che impariamo ad interpretarlo meglio».
Di una Chiesa «più pulita, più trasparente», «che apra le finestre e lasci entrare aria nel palazzo», che «discuta del sacerdozio femminile e dell’abolizione dell’obbligo del celibato», ha parlato in un’intervista al Paese sera (12/2) Giovanni Franzoni, storica guida della Comunità cristiana di base di San Paolo fuori le mura, a Roma, sottolineando come il problema non sia il papa ma il papato: «Un’organizzazione istituzionale antiquata, dove non c’è partecipazione». «Una monarchia assoluta», conclude Franzoni, che «va riformata».
Una riforma senza la quale, è il commento di don Franco Barbero (donfrancobarbero.blogspot.it), animatore della comunità di base di Pinerolo, «morto un papa se ne fa un altro, ma la musica non cambia».
Più ottimista Domenico Rosati, ex presidente delle Acli, che in un articolo su L’Unità (12/2) afferma che il gesto compiuto da Benedetto XVI «può essere letto come l’incipit di una nuova esperienza di conduzione della Chiesa. L’eventualità, che ora si verifica, di una successione determinata dalla volontà umana apre il campo ad una riflessione aggiornata sull’istanza conciliare finora insoddisfatta della collegialità nella guida del Popolo di Dio. Non c’è stata finora né la riforma della Curia romana, né s’è creato lo spazio da molti auspicato per il Sinodo dei vescovi come detentore, insieme con il papa, del potere massimo di guida», prosegue Rosati. «La configurazione di una funzione rilevante del Sinodo costituirebbe perciò un fattore di continuità e di stabilità da valere sia per le interruzioni traumatiche che per le successioni morbide e, più in generale, per una conduzione ordinaria più partecipata e sensibile dell’intera comunità dei fedeli nelle ardue prove della contemporaneità».
Il «riconoscimento della propria incapacità, del proprio non essere all’altezza», è il commento del teologo Vito Mancuso (La Repubblica, 12/2), rappresenta «la fine di una modalità di intendere il papato, e può essere la nascita di qualcosa di nuovo». Ma se una riforma della visione monarchica e sacrale del papato, riprendendo «la concezione più aperta e funzionale che il ruolo del papa aveva nei primi secoli cristiani» è, a suo avviso, un’ipotesi remota, resta «l’urgenza di rimettere al centro del governo della Chiesa la spiritualità del Nuovo Testamento, passando da una concezione che assegna al papato un potere assoluto e solitario, a una concezione più aperta e capace di far vivere nella quotidianità il metodo conciliare».
Il papa desacralizzato

E di nuovo c’è senz’altro, come rileva Raniero La Valle (Huffington post, 11/2), che con questo gesto si demitizza la figura del papa non tenendo conto di «tutto quel sovraccarico messo sulla figura del pontefice come di un dio in Terra che non si può dimettere fino alla fine, di un papa dal carattere indelebile nel suo ministero. Benedetto XVI – prosegue La Valle – ha di fatto aperto alla visione del Concilio Vaticano II che ha ricollocato il papa all’interno del collegio apostolico dei vescovi e, come i vescovi a un certo punto lasciano il loro incarico, così in via di principio, nulla deve impedire che il papa possa non più ritenersi all’altezza del suo incarico».

Stessi rilievi di don Aldo Antonelli (Huffington post, 11/2), parroco ad Antrosano, che ha sottolineato la portata «demistificatoria e desacralizzante della figura del papa, sempre vista come una specie di “consacrazione” vita natural durante». «Ben venuto allora questo gesto», anche se, prosegue don Antonelli, «c’è ancora un lungo cammino da percorrere per sottrarre il papato alla iconografia sacrale e riconsegnarlo alle dimensioni evangeliche del servizio».

Ma c’è di più. Per questa via, scrive sulle pagine di Europa (12/2) Franco Monaco, senatore Pd, impegnato nell’associazione “Città dell’Uomo”, Benedetto XVI non solo «umanizza la figura del pontefice» ma «accredita una visione meno papocentrica della Chiesa. Un rapporto tra primato del papa, collegialità episcopale e Chiesa Popolo di Dio conforme più al Vaticano II che al Vaticano I». «Una decisione e un gesto, in sintesi, che valgono più di un trattato ai fini della riforma in senso più evangelico e comunionale della Chiesa».

Benedetto XVI, scrive don Paolo Farinella, ha scardinato «la figura del papa dall’aureola di sacralità, dove ingiustamente era stata collocata» riportandola «alle dimensioni dell’umanità ordinaria». «Ora – prosegue Farinella – l’esigenza di una grande riforma» è «sempre più cogente e necessaria, specialmente in capite, cioè nella struttura gerarchica che oggi è lo scandalo maggiore dentro il cuore stesso della Chiesa». Le dimissioni del papa, continua Farinella, pongono sul tappeto della teologia la questione della collegialità dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Si afferma, per Farinella, «la necessità, non più procrastinabile, di un concilio che stabilisca i confini dell’autorità papale e nel contempo affermi i diritti dei vescovi che tornano a riprendersi la loro natura di “epìskopoi-custodi/sorveglianti” e non più luogotenenti o commissari governativi del papa-re o, ancora peggio, padroni di una porzione di Chiesa».

Nessun rimpianto

Ma il commento forse più lontano dai toni apologetici di questi giorni è quello che la scrittrice Michela Murgia, già educatrice e animatrice nell’Azione Cattolica, affida al suo sito (www.michelamurgia.com ). «La narrazione mediatica ce lo dipinge come un raffinato studioso un po’ timido incappato suo malgrado in un pontificato pesante, ma le cose non stanno proprio così, a cominciare dalla fama di grande teologo». «In nessuna facoltà teologica si studia sui testi di Joseph Ratzinger, che della dottrina è sempre stato più custode che fautore, dotato di quello sguardo anche un po’ ragionieristico che forse deve avere ogni buon prefetto della sacra Congregazione per la dottrina, ma che fa sì che la differenza che passa tra un teologo e un prefetto della dottrina sia la stessa che passa tra un legislatore e il capo della polizia». «La storia del mite studioso oppresso dal peso della guida di una Chiesa complessa è altrettanto distorta», prosegue Murgia. «Quando Ratzinger è stato eletto papa non era un chierico dedito all’esegesi e all’adorazione eucaristica, ma un potentissimo uomo di governo, numero due della Chiesa universale, il temuto funzionario del Sant’Uffizio che aveva bacchettato le mani ai teologi di mezzo mondo. È difficile credere che chi ha avuto incarichi di grande potere per l’intera sua esistenza adesso ne senta il peso al punto da fare un passo che nella storia della Chiesa ha così pochi precedenti. È molto più sensato immaginare che gli errori di questo pontificato gli stiano più banalmente presentando il conto». (ingrid colanicchia)

da: Adista Notizie n. 7 del 23/02/2013