Il pensiero della settimana di Piero Stefani: Benedetto XVI «Dichiaro di rinunciare»

   Subito dopo l’elezione al soglio pontificio di Joseph Ratzinger, nell’aprile del 2005, il card. Martini rilasciò un’intervista in cui affermava testualmente: «Sono certo che Benedetto XVI ci riserverà delle sorprese». Così è avvenuto, probabilmente ben al di là di quanto immaginato dall’autore stesso della frase. In realtà, più che un plurale sarebbe stato conveniente usare un singolare; nei suoi otto anni di pontificato la sorpresa vera è stata una sola: la decisione che ha messo bruscamente fine al suo pontificato.

     Lo stupore più grande nasce dal fatto che chi si è presentato e ha agito per il recupero di una tradizione giudicata esposta a una molteplicità di minacce abbia dato il contributo maggiore, tra quelli finora elaborati, alla modernizzazione della figura del papa. La divaricazione delle due linee di tendenza ora enunciate spinge potentemente a evocare l’eterogenesi dei fini. Siamo di fronte a una decisione epocale, ma anche a un atto conclusivo di un pontificato che, da un lato, ha posto di nuovo la Chiesa, con  le sue scarse virtù e i suoi molti mali, al centro dell’attenzione e, dall’altro, ha ridimensionato fortemente la capacità del cattolicesimo ufficiale di comunicare con il mondo. La morte e i funerali di Giovanni Paolo II furono un evento globale; la rinuncia di Benedetto è uno spartiacque all’interno del cattolicesimo.

     Che la rinunzia da parte di un papa sia prevista dall’attuale diritto canonico è fuori discussione. Tuttavia  è altrettanto certo che quello di Benedetto XVI è stato un gesto compiuto per la prima volta nella storia. Richiamare Celestino V o le dimissioni plurime avvenute per porre fine allo Scisma di Occidente è un puro non-senso storico. Nulla oggi è paragonabile a quei contesti. La scelta di Ratzinger non muta il senso di quei papati; cambia invece definitivamente l’immagine del papa costituitasi nel XIX e nel XX secolo quando, per reagire all’assedio del mondo moderno, un sommo pontefice, ormai politicamente debole, fu soggetto a una forma di verticistica esaltazione spirituale. Non a caso il 1870 vide sia la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale a opera del Vaticano I sia la breccia di Porta Pia compiuta dai bersaglieri. Con la rinunzia di Benedetto XVI alla sacralità della persona del papa subentra una declinazione funzionale del suo ufficio che va retto solo fino a quando si hanno le forze per farlo.

     Alle spalle della decisione di Benedetto XVI c’è un percorso storico che risale in prima istanza alla decisione di Paolo VI di mettere in pensione i vescovi al raggiungimento del 75 anno di età (salvo brevi proroghe) e di vietare ai cardinali ultraottantenni di entrare in conclave. Entrambe le decisioni sono desacralizzanti.  Nel caso dei vescovi si tratta di efficienza: per svolgere la funzione di pastore il saper agire sembra prevalere sui valori più legati alla pura spiritualità. Una forte componente di laicizzazione si ha anche nello sbarramento anagrafico posto ai partecipanti al conclave, scelta oggettivamente in tensione con l’assistenza dello Spirito Santo sempre evocata nel caso dell’elezione al soglio di Pietro. Quelle decisioni hanno messo in moto un processo. Non per nulla sia Paolo VI sia Giovanni Paolo II si sono posti il problema della rinuncia. Che entrambi abbiano respinto l’ipotesi non significa che non siano stati costretti a pensarci. Il gioco era aperto da una quarantina d’anni; Joseph Ratzinger ha ritenuto che fosse giunto il momento di portarlo alla conclusione. Si è quindi creato un precedente che farà sì che tutti i successori, oltre a essere obbligati a  valutare la possibilità di rinuncia, si troveranno sempre più in difficoltà a trovare motivi per restare vita natural durante sul soglio di Pietro.

     Fino a che valgono queste regole, nessun papa sarà obbligato canonicamente a ritirarsi dietro le quinte. In effetti si tratta di un atto unilaterale. Il papa rinuncia, non rassegna le dimissioni in mano a nessuno (mentre i vescovi lo fanno nelle mani del pontefice). Il precedente peserà, comunque, come un macigno e renderà sempre meno accettabile per la comunità ecclesiale accogliere di essere guidata da una persona inefficiente. Questo fatto si appella di nuovo ai valori, tipicamente moderni, dell’efficienza; mentre accantona quelli paradossali ben espressi del detto paolino che si è forti proprio quando  si è deboli (2 Cor 12,9).

     Rimane da capire quali fattori abbiano spinto Benedetto XVI a prendere proprio ora questa grave decisione. Di esplicito abbiamo solo le sue parole latine. Esse ammettono – e il pensiero va sicuramente al suo predecessore – che il pontificato è un compito spirituale che può essere svolto non solo agendo e parlando ma anche pregando e patendo. La spiritualità di Ratzinger non è estranea a questi due ultimi termini; essi vengono però declinati solo sul versante personale. Il pregare e forse anche il patire per il bene della Chiesa saranno le due linee guida che contraddistingueranno il suo post-pontificato. Con ciò Ratzinger sembra quasi voler dire che la theologia crucis ha senso nella dimensione individuale, ma non ha ragion d’essere in quella istituzionale. In tempi di veloci mutamenti e in un’epoca di grandi perturbamenti per la fede,  la barca di San Pietro deve, infatti, essere guidata da chi è vigoroso nel corpo e nell’anima («Attamen in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est»).

     Il testo non specifica quali siano i grandi turbamenti che caratterizzano la fede (a tal proposito molti, probabilmente non a torto, hanno evocato anche gli scontri e gli scandali interni ai vertici stessi della gerarchia). La diagnosi resta nel generico, anche se si lascia capire che bisogna comunque ricorrere a una terapia d’urto; quest’ultima sarà accompagnata da lontano da Ratzinger con la preghiera. Non dunque pregare e patire, ma pregare in proprio perché altri agiscano.

     Il momento in cui è stata assunta la decisione evidenzia un pontificato interrotto. Per rendersene conto basta dire che la rinuncia avviene quando è stato svolto circa un terzo dell’anno della fede fortemente voluto da Benedetto XVI. Inoltre il ritiro impedirà l’uscita della enciclica dedicata alla fede. C’è la carità  (Deus caritas est, 2005); c’è la speranza ( In spe salvi, 2007), mancherà proprio la fede, l’argomento  a cui Ratzinger ha dedicato la riflessione di tutta la vita.

     L’interruzione non è stata messa a tema. A essere messa in campo come giustificazioneè solo una debolezza soggettiva. La componente personale ha quindi un ruolo preminente nella rinuncia di Benedetto XVI. La maggiore novità di un pontificato conchiusosi in modo tanto repentino trova riscontro nella constatazione secondo la quale Ratzinger anche in altre circostanze ha lasciato una riconoscibile impronta soggettiva nella tradizione ecclesiale. In precedenza essa era legata soprattutto alla sua personale visione teologica, ora essa interagisce ancor più fortemente con la sua persona. Nelle prime righe dell’atto di rinuncia, Benedetto dice di aver più volte consultato la sua coscienza davanti a Dio, ma non fa alcun cenno di aver dato luogo a qualche forma di consultazione della comunità ecclesiale. Anche se non fosse relativista, il predominio della soggettività presente nella scelta di Ratzinger è comunque un valore moderno che si è assiso sul soglio di Pietro paradossalmente attraverso una rinuncia.

Piero Stefani

Il pensiero della settimana, n. 420