Editoriale: “Operosa attesa” [Pentecoste 2013]

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di Cristina Simonelli

Il giorno pasquale si apre alla sequenza feriale del tempo ordinario attraverso il portale di Pentecoste, mentre ancora risuona il rimprovero “perché state a guardare il cielo?” (At 1,11). Lo Spirito anima in noi fedeltà alla terra, mentre articola la preghiera (Rm 8) perché nulla vada perduto, per abitare i frammenti senza perdere speranza

Per vocazione il CTI raccoglie frammenti, accoglie operosità e attese di molte, cui ambirebbe dar voce. I mesi trascorsi sono stati occasione di molteplici incontri, alcuni di rilievo accademico o comunque di certa risonanza, altri legati alle parole e alle azioni di gruppi di donne che operano nelle parrocchie, affrontando anche diffidenza e ironia, o che lavorano per la dignità di tutte: ricordare fra gli altri luoghi S. Caterina alla periferia di Udine, Bergamo e Lamezia è anche disegnare una cartografia ecclesiale che interpreta, edifica, consola (1 Cor 14), un’Italia migliore che merita parola.

I bollettini parrocchiali che ci hanno fatto vedere, le poesie in friulano sul silenzio imposto alle donne (Maria Tore, Oltre il silenzio), le narrazioni delle donne calabresi sono Straordinario nell’ordinario: questo è anche il titolo del 14° volume della collana Sui generis, ormai in stampa e presto disponibile alla distribuzione. In esso M. Antonella Grillo e Luisella Lugoboni presentano le pratiche e le visioni di due testimoni del ‘900, Marisa Bellenzier e Ivana Ceresa. Meno note forse di altre pubbliciste e teologhe, possono rappresentare la forza critica e la profondità spirituale di una generazione di donne che ha desiderato dare parola e suggerire parole a nuove generazioni, senza risentimento e senza invidia. Una riflessione di Emma Cavallaro apre il volume testimoniando la precocità e la radicalità delle istanze che attraversavano le comunità ecclesiali negli scorsi decenni. Molte di quelle domande sono ancora senza risposta: ma l’operosa attesa di questo tempo spinge a riproporle, a volte in forma ampia, altre volte individuandone singoli aspetti, minori forse, ma tutt’altro che insignificanti. Ne proponiamo due, come esempi.

Insieme a molte e ben più autorevoli voci abbiamo espresso la speranza che la novità del linguaggio e dei gesti del vescovo di Roma, papa Francesco, trovi la conferma di trasformazioni istituzionali. Ci permettiamo di suggerirne intanto una facile facile, l’interesse per la quale è comprensibile in un Coordinamento legato allo studio della teologia: come è noto alle donne – laiche o suore non importa – non è consentita la frequenza del livello istituzionale della teologia in tutti i luoghi che abbiano a che fare con i Seminari, abitualmente indicati come ITA (Istituti Teologici Affiliati alle Facoltà). Il risultato sono acrobazie delle donne per confluire nelle Facoltà e asfissie di molti seminari, con piccole classi troppo omogenee. Sono decenni che se parla, ma le risposte sono sempre consistite in inviti alla saggia sopportazione, dal momento che si tratterebbe di un piccolo regolamento della Congregazione per l’Educazione Cattolica, assolutamente provvisorio. Ora veramente si sta mostrando estremamente duraturo: anzi c’è chi sostiene che il Motu proprio del precedente Pontifice, a pochi giorni dalla sua rinuncia, attribuendo la formazione nei seminari alla Congregazione per il Clero e disponendo che lo studio che vi si svolge sia concordato tra le due Congregazioni, renderebbe ancora meno credibile la provvisorietà del divieto. Ma i regolamenti non piovono dal cielo, nascono sulla terra e sulla terra si possono modificare, come ci auguriamo avvenga.

L’altro esempio è più seria questione, anche se nei giorni passati è stata spesso rubricata nel gossip, mentre le voci critiche che si erano levate sono state apostrofate di sindrome veterofemminista, reazione isterica o almeno carenza di senso dell’umorismo. Mi riferisco all’invito rivolto da papa Francesco alle suore: “siate madri, non zitelle”. Che voleva essere una bella frase, un pensiero bonario fatto col linguaggio di tutti i giorni, quello per cui chi saluta dice buona sera o per cui una persona gentile si china a raccogliere un oggetto caduto, normalmente. Ma la normalità è subdola e vela/disvela sfondi culturali non verificati, ma anche questi certo proprio della terra, non piovuti dal cielo, sui quali, dopo aver riso, sorriso o pianto, sarebbe bene fermarsi a riflettere. Perché zitella porta con sé un mondo di disprezzo per persone non volute, per donne acide perché “senza un uomo”, per persone aride perché senza amore. Perché è un modo di classificare le persone che le donne non vogliono più sopportare, così come in particolare le donne che sono anche suore non vogliono più sopportare il messaggio subliminale che le vuole inette e fuori del mondo, così come le donne che sono anche madri non vogliono più essere oggetto di mistica lode e pratico dileggio, se appena escono dal cliché assegnato. Perché infine proprio su sfondi non verificati e non disciplinati può succedere che la divergenza di opinioni nei confronti delle onorevoli Boldrini e Kyenge prenda la forma di insulti etnici e di genere e che – la cronaca non ci risparmia – le difficoltà di relazione diventino violenza e uccisione.

Ma questa gaffe – peraltro accostabile a un’infinità di ingloriosi aneddoti che sarebbe fin troppo facile addurre – può essere una buona occasione: per mettersi in stato di laboratorio, per riflettere su come essere umanamente in questa comune storia donne e uomini, per riprendere pacatamente una riflessione di genere, senza paure per una categoria anatematizzata sulla base della sua caricatura, quasi stereotipato protocollo antieretico. Come si esprimono le donne della Casa Accoglienza Meuli’, cui sopra si accennava come esperienza calabrese: «Quando le solitudini, le sofferenze e le difficoltà, che sembrano imprigionarci, vengono prese in mano, diventano sbocco, gradino, perché insieme ci si possa rialzare, risalire. Si guarda e si punta in altro, si sogna e si realizza, anche in piccolo, qualcosa di significativo» (Dignità femminili, quarta di copertina).

La festa di Pentecoste, legge nuova nell’interiorità e promessa di diversità riconciliate, è qualcosa di troppo grande per essere piegata a un singolo tema, per importante che sia. Tuttavia le parole con cui fr. Christian illustra la lancinante curiosità con cui si affaccia al suo giorno, possono interpretare questo tempo, esortare a edificare una chiesa spaziosa e diventare augurio che consola:  «investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze» (De Chergé, Testamento). Fra i tempi, in operosa attesa.