SAN ROMERO D’AMERICA di Jon Sobrino (in Adista Documenti)

In molti si sono chiesti, già da tempo, quand’è che verrà canonizzato mons. Romero. Altri sono andati più in là: “Se mons. Romero non è santo, chi lo è?”. E altri non hanno nascosto la loro sorpresa e anche un po’ di rabbia: di fronte alla rapidità con cui sono stati canonizzati madre Teresa e Giovanni Paolo II – per non parlare di José María Escrivá – non capiscono il silenzio intorno a mons. Romero. Sembra che ora sia giunto il suo momento.
PAPA FRANCESCO. PIÙ CHE “SBLOCCO”, “ROTTURA”
La rinuncia di Benedetto XVI ha rappresentato un momento di rottura di grande rilevanza, un gesto di onestà raro a Roma, che ha creato il clima necessario per altre rotture. E così è successo. Il 20 aprile l’arcivescovo Vincenzo Paglia, dopo un incontro con papa Francesco, ha annunciato che «la causa di beatificazione di mons. Romero è stata sbloccata» (parleremo di beatificazione o, in generale, di canonizzazione).
È stata “sbloccata” perché era stata “bloccata” sine die dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Sembra non solo per ragioni burocratiche, facilmente superabili da un papa. Ciò che ha fatto papa Francesco sembra configurarsi come una “rottura”: esponenti gerarchici di diverse curie per anni hanno fatto il possibile per impedire la canonizzazione.
È noto che, mentre era in vita, l’oligarchia e gli altri poteri del mondo salvadoregno si comportarono con Romero in modo disonesto e crudele. «Monsignore vende la sua anima al diavolo», scrisse un giornale dell’oligarchia. E riempirono le strade della capitale con volantini su cui era scritto: «Fai il patriota, uccidi un prete».
Ma non erano solo questi ad andare contro di lui. Nelle curie, dentro e fuori El Salvador, c’erano esponenti della gerarchia che dall’inizio trattarono Monsignore con pregiudizi inflessibili e spesso senza giustizia. Non gli perdonavano il suo sostegno a una teologia, anche se buona, di carattere liberatore. Né gli perdonavano il suo appoggio, anche se giusto – e critico –, alle organizzazioni popolari. Le sue prese di posizione nette e le sue denunce radicali contro gli oppressori, gli eserciti, gli squadroni della morte, i governi, l’impero statunitense, destarono in loro sorpresa e timore. E il fastidio più profondo, e meno confessabile da persone di Chiesa, è che Monsignore, nel suo modo di pensare, di parlare, di agire, assomigliasse molto a Gesù di Nazareth. Le sue parole disorientavano totalmente: «Mi rallegro fratelli che la Chiesa sia perseguitata… Sarebbe molto triste se nella nostra Chiesa non ci fossero sacerdoti assassinati».
I problemi cominciarono subito. La nunziatura reagì con aggressività contro la sua decisione di celebrare una misa única (un’unica messa nella piazza davanti alla cattedrale, ndt) dopo l’omicidio di padre Rutilio Grande il 20 marzo del 1977: un autentico grido di fede, speranza e impegno, uguagliato solo da quello per il funerale dello stesso Monsignore il 30 marzo del 1980. Ad eccezione di mons. Rivera, tutti gli altri vescovi salvadoregni vi si opposero, alcuni pubblicamente e rozzamente. E nel 1978 diffusero un messaggio, breve e cattivo, sulle organizzazioni popolari che contraddiceva esplicitamente la lunga lettera pastorale di mons. Romero su “La Chiesa e le organizzazioni politiche popolari”. Poco prima di morire, Romero scrisse nel suo diario le tre cose che lo preoccupavano. La terza era la “sua situazione conflittuale” con gli altri vescovi. Ricordo la sua gioia a Puebla durante una riunione con i vescovi della linea di Medellín. «Che bello poter star qui come fratelli!». Al suo funerale, a parte mons. Rivera Damas, non partecipò nessuno dei vescovi di El Salvador.
All’interno della Curia vaticana hanno parlato male di Monsignore molti potenti, funzionari del governo degli Stati Uniti e vescovi come Alfonso López Trujillo. Da Roma gli inviarono visitatori apostolici in più occasioni, e a un certo punto pensarono di toglierli l’incarico o di svuotarglielo, nominando un vescovo coadiutore con pieni poteri. Monsignore rispose: «Sono disposto ad obbedire. Chiedo solo, nel caso in cui venga rimosso, che ciò venga fatto con dignità per non far soffrire il mio popolo». Nei suoi viaggi a Roma condivise i suoi problemi con padre Arrupe e con il card. Pironio, entrambi in difficoltà con la Curia: si rincuoravano a vicenda. Negli ultimi anni apprezzò molto la visita che gli fece il card. Aloísio Lorscheider.
Dalla sua visita a Paolo VI nel maggio del 1977 uscì felice. Dalla sua prima visita a Giovanni Paolo II deluso e triste. Dalla seconda riconfortato. Dopo il suo assassinio, Wojtyla, inaspettatamente e senza comunicarlo al governo, si recò a onorare la sua tomba nella cattedrale. Lo chiamò «zelante pastore».
I giornalisti hanno chiesto spesso a Benedetto XVI quando sarebbe avvenuta la canonizzazione di mons. Romero. Rispondendo a un giornalista francese, disse che «il ritardo non era dovuto alla persona dell’arcivescovo assassinato, che, per le sue virtù eroiche, meritava di essere beatificato; ma piuttosto alla situazione di contrapposizione politica che esiste in El Salvador a proposito dell’operato di Monsignore». La domanda che resta senza risposta è per quale motivo, concretamente, in tale situazione la «canonizzazione non è opportuna».
Mons. Urioste ha detto molte volte che mons. Romero è stato il salvadoregno più amato e più odiato nel Paese. I potenti, l’oligarchia, l’esercito e gli squadroni della morte, l’economia, la politica e molti mezzi di comunicazione lo odiavano. È da alcuni di questi ambienti che sono usciti coloro che lo hanno ucciso. E i più ostili quella notte brindarono con lo champagne. Non è facile per il Vaticano canonizzare Monsignore, mentre sono ancora vivi, e magari dovrebbero pure essere presenti alla sua beatificazione per ragioni di protocollo, alcuni nemici importanti di Romero. Chissà se è questo a non venire giudicato “opportuno”.
Chissà se sia altrettanto inopportuno indicarlo pubblicamente come esempio eccellente di vescovo, dal momento che questo infastidirebbe alcuni di loro. E chissà se verrà ancora  ripetuto che «non bisogna politicizzare mons. Romero», perché questo potrebbe ostacolarne la canonizzazione, trita affermazione ripetuta senza argomentazioni.

UN SANTO
Non sappiamo cosa si dirà nell’atto di beatificazione e di canonizzazione. Ci piacerebbe che, oltre a ciò che di lui viene visto da Roma, vi siano sottolineate le cose importanti di Monsignore che vediamo da qui.
Conversione. Nella migliore tradizione delle Chiese cristiane, Romero, uomo sempre buono e di grandi valori morali, negli anni Settanta passò attraverso un cambiamento radicale, o conversione, la cui causa principale fu l’incontro con i poveri, già quand’era vescovo a Santiago de María e definitivamente a San Salvador. Il 12 marzo del 1977, di fronte al cadavere di Rutilio Grande e di due contadini, la sua vita cambiò per sempre. Le innumerevoli vittime, i poveri e gli oppressi lo condussero a una nuova vita. Trovò in loro una ultimità che coincideva con l’ultimità di Dio. Questo penso sia successo nel cuore di Romero in quei momenti di conversione. Non fece mai marcia indietro.
In questo lo aiutarono in primo luogo i poveri, ma anche gli eventi di quei primi giorni. I sacerdoti che egli riteneva di sinistra e nella linea di Medellín lo appoggiarono senza condizioni, mentre chi era stato dalla sua parte quando era un vescovo moderato e apolitico lo lasciò solo. A persuaderlo che il nuovo cammino fosse quello giusto fu anche il corpo ecclesiale che immediatamente si formò intorno a lui, con sacerdoti e religiosi, con le maggioranze povere e con vari professionisti e universitari della media.
Compassione contro l’ingiustizia. Le porte del suo ufficio all’arcivescovado e all’hospitalito erano sempre aperte per accogliere ed ascoltare il povero. Visse profondamente l’umiltà che accompagnava alla compassione: «A me tocca raccogliere cadaveri», disse ad Aguilares. È così che si convertì, come i vescovi del XVI secolo, in difensore d’ufficio dei poveri.
Denuncia della menzogna e dell’occultamento. Non c’è bisogno di dilungarci su questo, ma è importante sottolineare il modo in cui lo faceva, che non ha eguali, specialmente nelle sue omelie. Tutte le domeniche, senza eccezione, elencava le violazioni dei diritti umani commesse durante la settimana delle quali aveva avuto notizia. Menzionava i nomi delle vittime, il luogo e le circostanze, la situazione in cui si trovavano i familiari. E nominava sempre i carnefici, anche qualora appartenessero alle organizzazioni popolari, sebbene nella stragrande maggioranza dei casi si trattasse dei membri dell’esercito, dei corpi di sicurezza e degli squadroni della morte. E ordinò loro: «In nome di Dio, in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi chiedo, vi supplico, vi ordino, in nome di Dio, cessi la repressione!».
Contro l’idolatria della ricchezza. La condannò, e per questo lo uccisero. «Si uccide chi disturba», aveva detto. E lui disturbò parlando dell’ingiustizia del denaro e della ricchezza, che egli elevò a idolatria. E denunciò molte altre idolatrie, a cominciare da quella della sicurezza nazionale. Condannò anche i mezzi di comunicazione: «Oggi nessuno crede più a niente». E la Corte Suprema di Giustizia: «Gran parte del malessere della nostra patria trova qui la sua chiave principale, nel presidente della Corte Suprema e in tutti i suoi collaboratori, che con più energia dovrebbero esigere dai tribunali, dai giudici, da tutti gli amministratori di questa parola sacrosanta, che veramente siano promotori di giustizia».
Romero di fronte al mistero di Dio. Monsignore parlò spesso di Dio. Fedele a Puebla e alla teologia della liberazione, condannò prima di tutto le divinità della morte, gli idoli, «quelli che hanno bisogno di vittime per esistere». Però al di sopra di tutto parlò del Dio di Gesù, il Dio reale, il Dio della sua vita e il Dio della storia. E parlò con Dio. È nota la sua accorata preghiera. E davanti a Dio si prostrava e si sentiva felice. Qualche giorno prima di essere assassinato, disse in un’omelia: «Nessun essere umano si conosce finché non ha incontrato Dio… Chi mi avrebbe detto, amati fratelli, che il frutto di questa predicazione di oggi fosse che ognuno di noi incontrasse Dio e vivesse la gioia della sua grandezza e della nostra fragilità!».
I poveri del suo popolo. Monsignore li amò e li difese. Sempre. Correva i loro stessi rischi e lo sapeva. «Non abbandonerò questo popolo». Denunciava i loro nemici, finanche il presidente del Paese, il generale Romero, o il presidente Carter, cui intimò di non inviare armi. Difese i poveri e per loro rischiò tutto, come fanno solo gli amici veri. E diceva, senza nascondere ciò che sentiva per loro: «Con questo popolo non è difficile essere un buon pastore».
Il popolo, su pobrería (celebre espressione di dom Pedro Casaldáliga, ndt), lo amò come raramente si ama un’autorità, un vescovo. Lo piansero come solo si piange un padre. Oggi, 33 anni dopo, molti continuano ad amarlo veramente. In El Salvador, lo amano in maniera diversa da come amano altri santi popolari canonizzati. Lo amano e lo ricordano in modo speciale i sopravvissuti ai massacri, mogli e madri di mariti e figli assassinati e desaparecidos, familiari di vittime di cui nessuno si ricorda. E senza sapere esattamente cosa significhi “canonizzazione”, “culto pubblico”, “intercessione”, si rallegrano che un papa proclami il suo nome solennemente e dica a tutto il mondo che Monsignore è stato una persona buona. Sono contenti. E questa non è piccola come espressione di canonizzazione.

L’ATTO VATICANO DI BEATIFICAZIONE
Non sappiamo cosa si scriverà nell’atto vaticano di beatificazione e canonizzazione. Speriamo che presenti mons. Romero, santo tradizionale e santo salvadoregno, come abbiamo cercato di descriverlo. Speriamo che il suo nome dia un nome a tanti che sono rimasti senza nome, a El Mozote (dove, nel 1981, furono trucidati centinaia di contadini salvadoregni, ndt), tra gli indigeni del Guatemala, tra i migranti assassinati in Messico… E speriamo dia un nome a tanti popoli crocifissi, innocenti e indifesi.
E giacché è stato un vescovo, speriamo che nell’atto ci si ricordi di Luis Angelelli, Gerardo Valencia Cano, Juan Gerardi, Joaquín Ramos… tutti vescovi latinoamericani assassinati. Insieme a molti altri, sono i Padri della Chiesa Latinoamericana a partire da Medellín.
Solo Dio sa come sarà l’atto di canonizzazione. Noi concludiamo dicendo che mons. Romero è già stato canonizzato. E ricordiamo i principali momenti di questa sua canonizzazione.
Mons. Casaldaliga, appresa la notizia del suo martirio, scrisse il poema “San Romero de América, pastor y mártir nuestro”, concludendo con una certezza: «Nessuno farà tacere la tua ultima omelia». Speriamo che la canonizzazione che verrà sia sempre l’espressione dell’omelia di Monsignore.
La Chiesa anglicana, il 31 marzo 2005, alla presenza della regina di Inghilterra e dell’arcivescovo di Canterbury, ha posto al centro della facciata di Westminster l’immagine di mons. Romero, insieme a quella di Martín Luther King e di altri otto martiri, uomini e donne, di tutte le Chiese cristiane del XX secolo. Speriamo che la canonizzazione che verrà conservi questo spirito ecumenico.
In Carta a las Iglesias, ricordando l’anniversario di Romero, scrivevamo: «In te l’orfano trova compassione». Con tutta la modestia e la gioia possibili dicevamo di lui ciò che l’Antico Testamento dice di Yahvé. Speriamo che la canonizzazione che verrà si richiami a Yahvé, Dio dei poveri e delle vittime.
Ignacio Ellacuría, quattro giorni dopo l’assassinio di Monsignore, pronunciò queste celebri parole, coraggiose e lucide: «Con mons. Romero, Dio è passato per El Salvador». Speriamo che mons. Romero e migliaia di martiri come lui, uomini e donne, siano canonizzati con queste parole: «Per l’America Latina, e per molti altri luoghi del Terzo Mondo, Dio è passato tra noi».
In una mattina d’inverno, un uomo vestito di stracci puliva con cura la tomba di Monsignore, aiutandosi con i suoi cenci, sorridendo soddisfatto al termine dell’operazione. Mi avvicinai e gli chiesi: «Che cosa fa?». Mi rispose: «Pulisco la tomba di Monsignore. Perché era mio padre». «In che senso?». «Io non sono altro che un povero. A volte porto un carretto al mercato, altre chiedo l’elemosina e qualche volta spendo tutto in liquori, e butto il mio tempo per strada… Però mi tiro sempre su. Ho avuto un padre che mi ha fatto sentire una persona. Perché quelli come me li amava e non li scansava. Ci parlava, ci toccava, ci faceva domande. Aveva fiducia in noi. Era evidente il bene che mi voleva. Come amano i genitori. Per questo pulisco la sua tomba. Come fanno i figli» (María López Vigil, Piezas para un retrato).
da: Adista Documenti n. 20 del 01/06/2013