…ma i miei pensieri indugiavano su altre pagine che sono impastate di umanità e forse aperte al cielo, proprio come lo è la Scrittura…
Care amiche e cari amici del CTI,
un cordiale saluto da Gerusalemme.
Le mura racchiudono la “città vecchia” e i suoi quartieri: ebraico, musulmano, cristiano e armeno, con i luoghi santi. Profumi inconsueti di spezie erompono nelle vie affollate.
Fin da subito ho sperimentato il complicarsi delle faccende più semplici, dai generi di prima necessità, alla linea telefonica. Non si tratta soltanto di una questione “babelica”, per cui ci si trova immersi dall’ebraico all’arabo, passando per l’inglese, ma di giorni della settimana: il venerdì dei musulmani, il cui tramonto segna l’inizio dello shabbat, riposo degli ebrei, e la domenica dei cristiani. Taluni parlano di paese in guerra sempre in festa.
Carlo Maria Martini ricordava come spesso gli fosse rivolta questa domanda, negli ultimi mesi di ministero a Milano: «Perché vuole andare a Gerusalemme?». Qualche volta l’hanno rivolta anche a me. Lui rispondeva: «Non lo so. Vado avvinto dallo Spirito del Signore». E aggiungeva: «Vado senza sapere ciò che là mi accadrà. Nessuno sa che cosa può accadere a Gerusalemme dove avvengono tante cose dolorose e strazianti».
Ci piace pensare che le “Conversazioni notturne a Gerusalemme” siano un suo dono. Un ciclo di incontri informali, rivolti agli amici di lingua italiana, cui ho dato il via lo scorso maggio, con Gianni Criveller (missionario del PIME, ora ad Hong Kong) ed Elisa Panato (architetto presso l’ufficio tecnico della Custodia di Terra Santa). Ospite dello scorso appuntamento, il 5 dicembre: sr. Azezet, assieme a due coraggiose donne locali che si occupano di diritti umani. Vi saluto raccontandovi di lei.
Quando, alla fine di novembre, abbiamo raggiunto Tel Aviv per conoscerla meglio, la temperatura si avvicinava ai 30 gradi. Qualcuno avrà immaginato una uscita balneare lontano da Gerusalemme. Invece ci siamo trovate a percorrere boulevard Har Tsiyon: da Sion a Sion direbbero gli esegeti… Di boulevard c’è solo il nome, in un’area dai tratti periferici e industriali.
Una giovane donna ci viene incontro, risolvendo ogni imbarazzo sulla correttezza dell’indirizzo. Saliamo le scale di un edificio piuttosto trascurato fino al primo piano dove si estende un lungo corridoio esterno, su cui si aprono diverse stanze. Una di queste funge da sede del centro per i rifugiati africani, nato con lo scopo primario di seguire donne che hanno subito abusi sessuali.
Le sue dita si muovono veloci ad intrecciare le fasce di un tessuto bianco da cui ricaverà un manufatto per la vendita.
Azezet Kidane Habtezghi nasce in Eritrea, a Masawa. Lascia la sua casa per seguire le orme del Comboni. In Etiopia segue la scuola di infermiera. Dopo molti anni trascorsi in Sudan, tra le insidie della foresta, raggiunge l’Inghilterra.
Dal 2010 abita a Betania, il villaggio di Marta e Maria per i cristiani, oltre il muro, ma forse è più facile incontrarla su uno degli sherut (taxi collettivi) che fanno la spola tra Gerusalemme e Tel Aviv. Cura le ferite del corpo e insieme dello spirito.
Minimo comune denominatore: i rifugiati e le rifugiate africane. M. è arrivata attraverso un pellegrinaggio: «La vita è difficile» ci racconta. I social network le garantiscono i contatti con la famiglia. Molti provengono dall’Etiopia o dall’Eritrea, dal Sudan o dalla Nigeria. Fuggono dalla disperazione e arrivano in Israele come in un limbo, portando addosso il marchio atroce delle torture nel Sinai. Come avviene sistematicamente dal 2007.
A loro dedica la sua vita, in una incessante opera di vicinanza, comprensione e ascolto, che solo persone che non lo praticano potrebbero qualificare come passivo. Per loro ha alzato la voce, perché: «chi ha visto non può tacere». Alcuni suoi connazionali la vorrebbero, da buona religiosa, in chiesa (e le tendono insidie); Israele la sorveglia. Collabora in un ambito che è stato definito da qualche esponente: «Il cancro del paese». Ma sulla sua agenda, e in questo mese, sta anche appuntato un invito a prendere la parola, per la terza volta, alla Knesset. Gli Stati Uniti le hanno conferito nel 2012, dalle mani di Hillary Clinton, lo U.S. State Department’s Trafficking In Persons (TIP) Heroes Award riconoscendola eroe della lotta al traffico di esseri umani. Segno tangibile di un interesse dei grandi che troppo spesso stenta a tradursi in realtà.
Ci auguriamo che sr. Aziza possa continuare, con le sue mani pazienti e tenaci, ad intrecciare i variopinti tessuti delle relazioni umane; non ricaverà manufatti, ma persone che, strappate ferocemente alla vita, troveranno il desiderio di ritornarvi.
Il Piccolo di Betlemme risorga presto nei nostri cuori.
Buona continuazione d’Avvento!
Lena Residori, 7 dicembre 2013