A Kari Elisabeth BØrresen «in Spirito e Verità» – Adriana Valerio

La fondatrice del Monastero delle Serve di Maria di Arco (Tn), Arcangela Biondini (1641-1712), è conosciuta, attraverso la sua Autobiografia e attraverso gli scritti dei suoi contemporanei, come donna imperiosa, che non si lasciava intimorire da nessuno; lei stessa ricorda: «Io lasciavo dire ognuno, poi facevo quello che mi dettava la coscienza». Non si lasciava intimorire né dai politici del tempo che la giudicavanotestarda”, né dagli uomini di Chiesa che non esitarono a dire di lei: «Che donna terribile, che badessa spaventosa!» (Autobiografia, II, 379).

Mi richiamo alla Biondini perché anche io, quando ho conosciuto Kari Elisabeth BØrresen, ho pensato: «Che donna terribile»! Era in occasione di un convegno internazionale che si tenne nel 1986 a Napoli su Vittoria Colonna e lei, che fece un intervento su “Caritas Pirckheimer e Vittoria Colonna”, quasi minacciò il moderatore perché non doveva permettersi di interromperla.

In tale circostanza ebbi modo anche di riconoscere il suo coraggio e la sua libertà nel parlare e, come Arcangela Biondini, anche lei mi apparve: «donna inquieta e bizzarra, amica delle novità» (Autobiografia, II, 376).

Ecco gli aspetti del suo carattere che voglio ricordare e sottolineare:

 

La libertà nel parlare.

Davanti a un mondo accademico paludato, o, per meglio dire, imprigionato in letture spesso circoscritte al dato filologico del testo, a volte timoroso e in ossequio della fonte antica, Kari BØrresen non ha esitato a rompere questi schemi e a esprimersi con grande libertà, tanto nei confronti della fonte che interpretava, quanto nei confronti delle persone che aveva davanti: siano state esse studiosi, vescovi o, se ne avesse avuto l’occasione, papi. In lei riconosco quella che gli antichi greci chiamavano parrhesìa, il parlare chiaramente, in libertà, anche di fronte al pericolo personale. Nel dire questo, penso alle riflessioni di Michel Foucault sul parlare con libertà come sfida al potere, sulla capacità e la forza di dire la verità. Una pratica che noi forse abbiamo perduto oggi, ma che è di grande significato nel contesto cristiano, perché con il Cristianesimo non solo l’uomo, maschio, cittadino, libero può esercitare la parrhesìa, ma anche le donne. Pensiamo alle martiri cristiane che parlavano con parrhesìa (vedi Perpetua). Ma Kari non è stata martire. La paragonerei piuttosto a Ildegarde di Bingen che seppe dire «No» ai vescovi di Magonza che chiedevano di dissotterrare il nobile giudicato eretico. Voglio dire che la libertà che Kari manifestava era una libertà che nasceva da un impegno etico e politico in senso lato.

 

Esigenza etica.

In qualche maniera dobbiamo dire che la novità e la libertà che Kari manifestava era nel non essere indifferente davanti alle fonti che leggeva; al contrario, entrava con il testo in un dialogo serrato e appassionato: lo interrogava e lo giudicava. In lei c’era l’urgenza della domanda che in qualche modo le consentiva di forzare il testo, affinché rispondesse alle sue richieste argomentative. I Padri della Chiesa, i teologi e le stesse donne non sfuggivano al suo giudizio. Il passato doveva rendere ragione alla luce delle domande etiche che il presente poneva. Il libro, che ha scritto nella collana che dirigevo a Napoli, La Dracma, Madri della Chiesa (Napoli 1993), nasceva a mio avviso da questa urgenza di dare visibilità e vigore alle parole delle donne facendo emergere con forza come tutte le costruzioni religiose siano da situare storicamente e necessitino di complessi processi di inculturazione. La storia e le sue dinamiche sono state al centro della riflessione di Kari BØrresen. Questa “vocazione etica” si legava a quella libertà di parlare davanti alle autorità, di cui dicevamo prima, siano esse state del passato (Agostino, Tommaso) o siano dell’oggi, come le posizioni della gerarchia cattolica o lo stesso papa. In questo senso, Kari riprendeva un poco lo stile che era stato di Brigida di Svezia. Quando la principessa svedese arrivò a Roma nel 1349 disse desolata «Questa è Roma!»: la descriveva popolata di rospi e vipere, con un clero avido, immorale e trascurato, coglieva la decadenza e avvertiva la necessità di una renovatio ecclesiae che partisse dai vertici della Chiesa. Quando arrivò a Napoli nel 1365, Brigida non ebbe timore di scrivere alla regina Giovanna, richiamandola ai suoi doveri di amministratrice di giustizia e della cosa pubblica, non ebbe paura di rivolgersi al vescovo di Napoli, Bernardo, per ricordargli come si deve comportare un alto prelato. Ebbene, Kari BØrresen in qualche modo sentiva di avere una vocazione etica quando affermava: «Io sono svedese: lo posso dire». E se lo diceva, non perché abitava 2mila km da Roma, ma perché lei era a tal punto libera dentro da poter parlare «in Spirito e Verità» anche al papa.

 

Diritti e giustizia.

Elizabeth Cady Stanton, figura guida dei primi movimenti femministi per l’emancipazione della donna, capì che l’affermazione dei diritti delle donne doveva necessariamente interpellare il testo sacro, che era stato a fondamento dell’emarginazione della donna. Kari, analogamente, anche se con un procedimento inverso, ha fatto lo stesso cammino. Partendo dai testi androcentrici delle culture religiose si è interrogata sulle ripercussioni che le religioni, impostate in contesti patriarcali, hanno avuto sull’elaborazione del sistema giuridico. Le questioni di genere non riguardavano, dunque, per lei la sola identità femminile; esse investivano, piuttosto, l’intera dimensione del fenomeno religioso: la visione antropologica, l’auto-comprensione delle Chiese e delle comunità, l’impianto teologico, l’immagine stessa di Dio. I principi di uguaglianza e di universalità del diritto, il problema dell’inclusione attiva delle donne per Kari dovevano interrogare profondamente le religioni e cambiare anche le tradizionali forme del confronto ecumenico. L’abitare una terra comune, infatti, non richiede solo un dialogo tra le diverse culture e tradizioni, ma esige, piuttosto, una messa in discussione dei parametri strutturali delle singole religioni e del paradigma antropologico-culturale ad esse sotteso.

Corporeità e bellezza.

Una delle cose che sorprendeva in Kari e che la faceva risultare “bizzarra”, era l’attenzione che aveva per il corpo. In un contesto cattolico, moralista e ipocrita, il suo guardarsi e guardare disorientava. L’attenzione alla sua pelle che soffriva dell’inquinamento italiano, il vedere la sessualità come un aspetto importante e positivo della vita umana gettava luce su una dimensione spesso vissuta nel mondo cattolico con angoscia, con vergogna, con troppo pudore. La corporeità per Kari era importante, la sessualità era dono ed era bella viverla in pienezza. In quella circostanza storica del nostro incontro (nel 1986) mi disse, decisa, che era importante vivere la maternità (lei aveva avuto una figlia autistica) e mi spingeva in questa direzione, sapendo la mia riluttanza a fare questa scelta. Ultimamente ai miei due figli inconsapevoli aveva detto orgogliosa: «Ringraziatemi: se siete nati, lo dovete a me».

 

Infine, la dislocazione.

La vocazione etica risveglia la certezza di non essere “a casa propria”. Kari era norvegese, ma aveva studiato in America e in Francia, aveva scelto come seconda patria l’Italia, piena di conflitti, ma anche, come diceva, così piena di vita e di dibattito culturale. Come le Matriarche dell’Antico Testamento, Kari BØrresen non aveva esitato a spostarsi, a partire, per compiere una missione che superasse la sua individualità per aprirsi alle generazioni future, per mettere al mondo figlie e figli lontani dalla “claustrofobia androcentrica” del nostro Occidente. Matriarca, dicevamo, e io stessa mi sento un poco figlia di Kari e per questo la ringrazio: per il coraggio che ha avuto nel rompere gli schemi e gli stereotipi e per quella capacità creativa che ha esercitato nel reinterpretare il passato, nel coniare nuovi termini e nel cogliere il nuovo che avanzava, ma che spesso oggi, anche noi teologhe, abbiamo paura a riconoscere.