Rom: se il Papa chiede perdono

Rom: se il Papa chiede perdono

Baracchine che bruciano, persone in fuga, occhi di bimbi spaventati, da cuccioli braccati. E, contro di loro, parole
di odio, pronunciate o scritte senza ritegno, con uno strano senso di sollievo: abbiamo trovato di chi è la colpa di tutti i nostri disagi – degli zingari! della nostra precarietà – degli zingari! di quella
percezione diffusa di insicurezza che molti mass-media amplificano – degli zingari!

Come
non ricordare con un brivido gelido il montare della follia nazista,
preparata e accompagnata dai pogrom,
ma anche dalla diffusione dei “protocolli dei Savi di Sion”, per cui un
numero sempre crescente di persone era convinta di sapere con certezza
che tutte le colpe del mondo erano “degli ebrei”?

Avevamo
sperato, sognato, pregato che non succedesse più, mai più. Ed ecco lo
spettro che torna,
ogni volta più insistente ed insidioso: un episodio spettacolarizzato
dai mass media, ma dai contorni ancora incerti – una ragazza Rom di 16
anni accusata di aver tentato di portar via, in una situazione
inverosimile,
una bambina – ha scatenato una reazione furibonda e violenta, un grande
e diffuso pogrom, non solo a Napoli ma in tutta Italia, nei confronti
di rom e sinti.

Si
mette in moto una macchina inesorabile, da collettivo inferocito ed
irrazionale. Lo svolgimento dei fatti non
è ancora stato accertato, ma la “giuria collettiva” ha già pronunciato
una sentenza di colpevolezza etnica: la ragazza è “colpevole” ed
insieme a lei sono indiscriminatamente colpevoli tutti i
rom ed i sinti. Il meccanismo è tribale e irrazionale, non si lascia
scalfire dai ragionamenti più ovvi: le responsabilità penali devono
essere provate; sono sempre personali, non etniche; i furti di bambini
molte volte annunciati sono, fino ad oggi sempre stati smentiti – è in
corso di stampa una ricerca condotta dall’Università di Verona e
sostenuta dalla Fondazione Migrantes che mostra come negli ultimi 20
anni neanche uno dei casi denunciati è stato provato. Ma è come se si
sospendesse il civile buon senso.

Tutto
questo è drammatico ed è anche molto rischioso, per tutti: come non
assistere con orrore al
montare della violenza, che dalle parole xenofobe (abbiamo mai
ascoltato i testi di complessi come i Gesta bellica?) diventano
devastazione, pugni e calci con cui ragazzi poco più che adolescenti in
branco aggrediscono
un giovane dai capelli lunghi, a Verona, a pochi passi dalla casa di
Giulietta? Come non intravedere con preoccupazione un legame tra tutto
questo? Come provare a difendere i nostri figli – tutti e tutte, rom e
non rom –
da questa violenza che rischia di travolgerli? Di loro e per loro siamo
responsabili, con loro e per loro non possiamo tacere, anche se le
parole sono chiamate a trasformarsi in laboratori di pace, in prassi
possibili, in
spazi vivibili.

La
prima cosa è forse fermarsi e fare “un passo indietro”. Fermarsi e
provare a chiedere perdono, pensando
che questo gesto possa aprire nuovi spazi, anche civili e, senza
dubbio, evangelici. Sono passati solo pochi anni da quando ha voluto
farlo, non a nome personale, ma come “servo dei servi di Dio”, il Papa,
nella celebrazione
penitenziale del 12 marzo 2000. Questo, con tutta la solennità del
linguaggio liturgico, il passo:

«Preghiamo
perché nella contemplazione di Gesù, nostro Signore e nostra Pace, i
cristiani sappiano pentirsi delle parole e dei comportamenti che a
volte sono stati
loro suggeriti dall’orgoglio, dall’odio, dall’inimicizia verso gli
aderenti ad altre religioni e verso gruppi sociali più deboli, come
quelli degli immigrati e degli zingari
».

Forse,
travolti dai tempi e dalle cose, non abbiamo più tanto presente questa
richiesta di perdono e per
questo non abbiamo sentito martellarla e ripeterla in tutta la stampa
cattolica: otto anni sono tanti! Certo però come cristiani non possiamo
dimenticare altrettanto in fretta almeno la parola del Vangelo:
«
ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito,
malato e in carcere e non mi avete visitato… In verità
vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi
miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me… (Mt 25)
».

Per questo, con dispiacere – contriti, si direbbe – percorriamo almeno
la strada della richiesta di perdono
«dal più vecchio al più giovane»,
come in quell’altra pagina del Vangelo, sperando che questo possa
aprire vie di giustizia, attivare pratiche di rispetto, contribuire
alla costruzione di città abitabili e sicure, ma per tutti e tutte.
Sappiamo del resto che “calpestare gli atri del Signore” e proclamare
la propria religiosa appartenenza può essere, altrimenti, quanto meno
azzardato: se il sale perde sapore, serve solo per essere buttato via.

 

Cristina Simonelli

Francesco Cipriani

Elisabetta Adami