La polemica suscitata da Andreoli in
un articolo su Avvenire
Lo riportiamo in nota
di A. Riggi
· Qualche premessa:
Sono stata sposata con un prete, e ne ho condiviso il dramma, trasformandolo in meraviglioso cammino di liberazione interiore che potesse
contagiare la mentalità collettiva; e oggi che lui non c’è più, continuo a scavare dentro tale esperienza per consegnarla in dono alle e agli altri. Eppure da tempo non parlo di celibato, tanto sono
stanca delle solite accese argomentazioni. Ora, nello stendere queste poche righe, mi pongo sulla scia delle donne che, pur non prive di Pensiero, si esprimono nei limiti della concretezza e della ragionevolezza.
Altra
importante premessa: seleziono SOLO ALCUNI PUNTI dello scritto di
Andreoli perché solo così riuscirò forse
a dire qualcosa. Le mie non sono repliche alle sue affermazioni, ma un
tentativo di spostare il discorso in una direzione diversa.
· La preoccupazione di Andreoli
Andreoli si preoccupa di chi, in cura di anime, non vive coerentemente ciò che ha promesso; egli parla di “comunità dei fedeli”, la quale “paga” lo scandalo del prete che “autorizza moralmente anche gli altri a fare altrettanto”. Ma l’allarme da lui lanciato fa pensare, più che a moniti profetici, ad
ancestrali paure del sacro “terribile e tremendo”: strano che egli le ripeschi.
Non
‘è bisogno di riassumere aspetti teorici, già sviscerati in campo
socio-antropologico e in scienze religiose. Meglio
cercare di capire su quale binario incasellare la questione da un punto
di vista umano. E quando dico umano, non parlo di atteggiamenti di
bonarietà compassionevole, ma di un’impostazione nella quale non
entrino in
gioco termini che, associati, sono maggiormente ambigui: sesso, sacro,
colpa, scandalo, e via dicendo. E’ sulle cause che mi interrogo,
guardando anzitutto allo sfondo storico che offre l’odierna
post-modernità,
da cui vedo profilarsi due schieramenti: da una parte i fautori del
ruolo determinante della religione sulla società civile, dall’altra i
negazionisti a tutto tondo di tale ruolo, fino a pretendere che la
chiesa sia
una conventicola con i suoi adepti.
Impressiona
il riduttivismo di queste due estremizzazioni. Quel che manca è la
cultura laica, poiché chi se ne appropria
la definizione cade nella contraddizione dell’essere-di-parte, mentre
la cultura tradizionale che prende a cuore la tutela morale dei “piccoli scandalizzati”, si fa maestra di una’etica povera di sostanza spirituale.
Sono
d’accordo con Andreoli che non è il caso di minimizzare l’impatto
sociale di fatti oggettivamente immorali (non per
via dell’infedeltà di un dissacratore, bensì per se stessi); sarebbe
grave scivolare sull’onda lunga del permissivismo; e, aggiungo, che non
è nemmeno giusto scusarli facendosi accusatori. Ma da questo
alla caduta nel patetico, ricorrendo all’atavica contrapposizione tra
sacro e profano in cui il sesso è “il” peccato, ce ne vuole… Il condannato gossip esce dalla porta ed entra dalla finestra.
Con quali occhi guardare al fenomeno denunciato
E’
ora di riflettere su idee di grande portata, soprattutto quella della
vocazione, in quanto ad essa deve rispondere l’essere umano
fatto ad immagine e somiglianza di Dio. E’ stata immessa nel cuore da
Dio: un Dio da amare attraverso gli altri esseri umani; e non in modo
astrattamente universale.
Invece una vocazione totalizzante che si fa investitura
incisa nel centro della persona fino a trasformarne l’essere, è così
superiore alla misura dell’umano da poter avere risvolti di vissuto sia
euforizzanti sia vittimali, davvero pericolosi. E intanto dico
subito che in tale contesto di sublimità il celibato ci sta benissimo…
La
possibilità del matrimonio uxorato potrebbe evitare, sì, tanti disagi
esistenziali, ma non sarebbe liberatoria se consistesse
nell’abrogazione di una legge, senza un salto qualitativo che segnasse
la transizione da una malintesa idea di sacralità ad una complessiva
visione dei ministeri, tra i quali quello presbiterale non fosse la
sintesi
e il culmine degli altri. E non accenno nemmeno al ministero come
“servizio”, perché la parola è svuotata dall’uso fin troppo abusato.
L’unica parola giusta a dire la bellezza di ogni vocazione è
“mistero”, nel senso mistico, che non è astratto (mi dispiace doverlo
precisare); che orienta la vita verso il divino.
Sono già alla conclusione
Diceva un prete sposato della moglie: “lei è stata la soluzione, non la causa del mio problema”. Lo stesso potrebbe dire la chiesa nei riguardo di ogni donna: a patto di evitare i
toni celebrativi e di venire ai fatti; di non concedersi alla sottolineatura dei “più”, che mettono sospetto.
In verità dobbiamo
essere noi donne a parlare tra noi, offrendo, anche indirettamente,
materiale nuovo alle produzioni inesauribili del Magistero. E perciò da
vecchia,
mi permetto di lanciare dei moniti alle mie compagne di viaggio:
Siamo vigili! Con
l’aria che tira né mogli di un uomo sacro né donne sacre! Dissociamoci
da una malintesa concezione del sacro, e prepariamo il terreno ad una
nuova
visione della chiamata divina, del ministero, del culto, di tutto ciò
che va spogliato da incrostazioni impastate di idolatria. Perché non
torni un passato peggiore di quello trascorso, ci va la pazienza e il
lavorio della trasformazione lenta e continua da immettere sul solco
della storia. In esso mettiamoci pure le nostre lacrime, ma miste alla
gioia di contribuire alla crescita complessiva di questa umanità, da
affidare
ad una società in grado di darsi l’etica del rispetto di ogni realtà,
compresa la religione e le sue chiese, senza stupide indulgenze a
disvalori che svuotano il senso della vita, lasciandolo in balia delle
soddisfazioni a pulsioni immediate e prive di prospettive alte.
Termino confessando una
mia debolezza: io non ho il coraggio di inveire nemmeno contro un prete
disonesto che prima seduce poi abbandona la donna alla sua
disperazione, maledicendola.
Come non scorgere in quei comportamenti che indurrebbero a gridargli
“mascalzone!”, le conseguenze dell’identificazione della donna col tabù
del sesso, e del sesso col peccato?
Ausilia Riggi