E Dio disse «Azione!»

Sotto la lente dell’analisi filologica passa persino il non me­morabile Dieci canoe (2006) dell’australiano Rolf de Heer, sottoposto a un vaglio at­tento a causa della sua “mitopoiesi aborigena”, celata sotto la trama tra­gicomica dei dieci navigatori che vanno al­la ricerca di un Graal molto particolare, le uova di oca o anitra selvatica necessarie per un rituale aborigeno australiano (il film, tra l’altro, è tutto recitato in quelle lin­gue marginali). Ma sfilano anche i film che sono quasi un vessillo di nobiltà della setti­ma arte: dalla Giovanna d’Arco di Dreyer e da Lancillotto e Ginevra di Bresson alla “santità impossibile” della Viridiana buñueliana, dalla “kenosi sacrificale” cri­stologica del Giovanni delle Bande Nere del Mestiere delle armi di Olmi alla “soterio­logia al femminile” dell’enigmatico Inland Empire presentato nel 2006 alla Mostra di Venezia da David Lynch, giù giù fino allo “spettacolo” della religione in Fellini o al “cammino iniziatico” tra colpe e abusi dell’Edipo re pasoliniano e persino ai pe­plum films e a quel monumentale e sontuo­so polpettone maya che è l‘Apocalypto di Mel Gibson (2006).

Ciò che, comunque, interessa è la consapevolezza sempre più diffusa del nesso tra cinema e religione: è appunto questo il titolo di un volume molto attraente che due studiosi, a prima vista lontani da tale oriz­zonte, uno storico e una studiosa di lettera­tura cristiana antica, hanno allestito con­vocando una dozzina di esperti di varie di­scipline. La domanda di fondo sulla rap­presentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole proprio perché il linguag­gio teologico è di sua natura simbolico, per non parlare poi del cristianesimo che ha nel suo cuore l’Incarnazione che rende un volto umano, quello di Cristo, eikôn, «icona, immagine» – come scrive san Pao­lo ai Colossesi (1,15) – del Dio invisibile. Non per nulla i primi due saggi di questa raccoltasi consacrano all’esplorazione del trascendente evocato nel cinema e alle forme del sacro che in esso si configurano.

Non secondario, poi, è il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono di loro natura performativi. La “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell'”azione” cinematogra­fica che “attua” nello spettatore ciò che rappresenta.

Un libro, quindi, che è collocato sul cri­nale dal quale si diramano sia il versante dell’annuncio della fede sia quello della comunicazione visiva contemporanea.

Considerato spesso dialetticamente come al­ternativo, il cinema in realtà rivela una sor­prendente “sororità” con la religione, con la spiritualità, col trascendente, col rito e col mito e non tanto per la valanga delle pellicole bibliche o agiografiche e neppure

Macchina da presa e atto liturgico sono entrambi «performativi». In comune hanno la capacità di spingerci a riflettere con profondità soltanto per gli straordinari capolavori di Dreyer, Bresson, Bergman, Tarkovskij, Olmi e così via, ma persino quando adotta la contestazione del religioso, e qui il pensie­ro spontaneamente va a quell'”ateo per grazia di Dio” che fu Buñuel. Dicevamo prima che l’interesse per l’in­treccio tra fede e cinema si fa sempre più vivo (noi stessi è forse la quarta volta che ci ritorniamo su queste pagine).

Ebbene, in una collana che s’intitola nientemeno che «Letture patristiche» abbiamo un’altra suggestiva raccolta di interventi che que­sta volta mirano al nesso tra Bibbia, lettera­tura e cinema, frutto di un convegno dal titolo denotativo «… E la “Parola” si fece film». Già sopra mettevamo in guardia nei confronti dei colossal biblici sul modello della Più grande storia mai raccontata di Ge­orge Stevens (1965), del Grande Pescatore di Frank Borzage (1959) o del Re dei re di Cecil de Mille (1927), che ebbe anche un re­make di Nicholas Ray negli anni Sessanta: non si badava a spese e a effetti, per ottene­re alla fine un’iconografia enfatica, capace di rasentare persino il sadismo come nell’esagitata Passione di Cristo di Mel Gib­son (90 minuti di torture su 126 di film…). Ora, in questo libro le molte voci che inter­vengono non ignorano il fenomeno delle pellicole religiose popolari, che pure ebbe­ro una loro funzione “didattica”: ad esem­pio, non manca un’analisi della Tunica di Henry Koster (1953), che è però un prodot­to pregevole, considerato come l’estremo tentativo del cinema per contrastare l’avanzante impero televisivo, e anche del Golgota didascalico di Julien Duvivier (1935). L’orizzonte degli autori del volume si allarga, però, ai grandi emblemi non so­lo cristologici a partire dall’imprescindibile Pasolini, ma anche esistenziali e spiri­tuali ove affiorano la crisi, la tentazione, il male e il Maligno e si ammicca pure al calei­doscopio dell’apocrifo; Entrano, pòi, in scena il bernanosiano-bressoniano “cura­to di campagna”, il buñueliano Nazarin, “folle per Cristo”, la crittografia cristica di Olmi, il Satana di Dreyer e di tanti altri regi­sti, la Madre-vergine di Godard, il Pilato apocrifo di Wajda, la genesi del male con il riproposto Lynch dell’Inland Empire e così via, fino a un curioso e a me ignoto Seoul Jesus, lungometraggio di debutto (1986) del coreano Jang Sun-woo, il cui protago­nista è un alienato mentale che si professa il Gesù escatologico destinato a fustigare e a giudicare la corruzione della storia. Ma a questo punto vorremmo virare verso una prospettiva molto specifica e originale, un’«altra visione», come dice il titolo del terzo e ultimo volume del nostro trittico su cinema e fede. È lo sguardo femminile che s’affaccia sul mistero di Dio, natural­mente sempre attraverso una carrellata di immagini filmiche. Il testo, curato da una cartoonist e da un critico cinematografico, è infatti sottotitolato «Donne che dicono Dio nel cinema». Esemplare è la scena di apertura tratta dal primo dei celebri dieci film dedicati al Decalogo da Kieślowski. Il nipotino chiede alla zia di spiegargli l’esi­stenza di Dio, mentre la sta abbracciando e le dice: «Ti voglio bene». E la zia, allora, risponde: «Dio è in questo!». Ma subito do­po c’è il terribile silenzio divino che deva­sta l’anima del pastore luterano di Luci d’inverno (1962) di Bergman con la mae­stra Marta, l’atea che si oppone al credente Algot, il sacrestano. Il viaggio prosegue in una straordinaria galleria filmica che non vede solo il bagliore della mistica con l’Edi­th Stein della Settima stanza di Márta Mészáros (1995), ma anche la corporeità come segno sacro (si pensi al Kadosh di Amos Gitai), e che ha in Maria full of grace di Joshua Marston (2004) il suo apice come «corpo che Dio ha preparato per Cri­sto». Altre quattro tappe simboliche pro­pone questo volume, tutte scandite con vocaboli latini (traditio, iter, occursus, pignus) e sempre affidate a voci e volti femminili fino all’ultima presenza, quella della Rachida dell’algerina Yamina Bachir Chouikh (2002), l’apologeta di Dio di fronte alla crudeltà umana: «Dio è innocente di tutto que­sto massacro, di tutti i crimini che l’uomo compie in suo nome». Anche se spesso è vero per una poltiglia immensa di immagi­ni filmiche deteriori, il cinema autentico non merita la definizione del pur geniale Artaud: «Gioca solo con la pelle delle cose, con l’epidermide della realtà». No, il gran­de cinema scende nella profondità delle anime e può ascendere fino alle “cime abis­sali” dell’infinito.