Editoriale della Presidente [15.3.13]

Il vescovo di Roma, prima di benedire “la città e il mondo”, chiede che fratelli e sorelle invochino su di lui benedizione: penso che molte mani si siano levate, come nel silenzio pregnante che accompagna l’epiclesi nei riti di ordinazione. Emozioni, informazioni, preoccupazioni e sogni si sono accavallati velocemente e aprono comunque a un tempo di laboratorio e riaffermata sinodalità. La tempestività delle reazioni infatti non sempre coglie nel segno – e le eminenti gaffes italiane  confortano questa convinzione.

E’ comprensibile che il nome di Francesco evochi il sogno di una chiesa: sobria, amante della giustizia e custode del dialogo e delle differenze? Verosimilmente tutte e tutti abbiamo aspettative, ma non identiche – anche se, pur nella gravità del momento, non possono non suscitare qualche sorriso le maldestre prove di “linguaggio francescano” di alcuni che bollavano prima di pauperistico ogni riferimento alla povertà e di ingenuo e rinunciatario ogni richiamo al dialogo che a sorores e fratres poverelli si riferisse. Gli stessi che forse trovano una sorta di conforto nel raccogliere con diligenza documentaria tutte le affermazioni di Bergoglio sulla inettitudine delle donne e sulla loro destinazione naturale, come dire “comunque beccatevi questo e state al vostro posto”. La nostra postazione, diciamo così, può ben stare nell’orizzonte aperto dalla preghiera di benedizione: che è invocazione, prima di tutto – e nasce da una Promessa. A quella con la maiuscola, ricevuta e accolta, risponde anche una promessa feriale cui, sono convinta, non mancheremo di ottemperare: la foto della danza – di una città italiana fra le altre – contro la violenza sulla donne, che accompagna il bello ma già in poche ore scontato scorcio giottesco significa la nostra promessa. Di esserci e di continuare a portare contributo di parola oltre che di ascolto, a promuovere a tutto campo la riflessione non “sulle donne” ma delle donne e a partire dalle donne, nella chiesa e nel mondo, nella piazza e nell’ekklesia.

Una chiesa di perdono ricevuto e perciò offerto – se così si può capire miserando et eligendo, dalla riflessione di Beda che commenta la chiamata del pubblicano Matteo, fino a quel momento compromesso con il potere – si trova appena alle spalle le tragedia del secolo breve, di Auschwitz e di tutti i regimi sanguinari, e davanti le sfide di un millennio non meno complicato. La misericordia non può ignorare la giustizia – penso alla sintesi, bella tra le molte possibili, di P. Sequeri nel dialogo con D. Demetrio (Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia 2012) – come la riconciliazione non può essere negazionista, rimuovendo semplicemente il passato e eliminando così una seconda volta le sue vittime.  Ma può, facendo memoria, invocare compimento e dunque aprire e immaginare futuro: per questo, come nella biblica berakah, oggi toto corde invochiamo benedizione.

cristina simonelli