Monolitismo gerarchico

 di Celso Alcaina
da: Adista Documenti n. 24 del 29/06/2013

Per vari secoli, la ragione e il fondamento del primato del papa sulla Cristianità hanno riguardato la dottrina e la morale. Le funzioni sacramentali, la disciplina, il governo, incluse le nomine dei vescovi, non erano un’esclusiva del papato. È solo come conseguenza delle nuove prerogative concesse dal Vaticano I al papa (giurisdizione immediata e diretta in tutto l’orbe), che venne creata la Congregazione De eligendis Episcopis. Si sarebbe dovuta occupare di selezionare – e non solo di costituire – i vescovi di alcune determinate regioni. Di fatto, tale Congregazione, che durò cinque anni scarsi, analizzò esclusivamente candidati a vescovi per le diocesi italiane. Fino ad allora, e ad eccezione di qualche epoca o luogo (Spagna, Francia e Germania, per esempio) in cui erano state o erano ancora in vigore le “investiture” da parte delle autorità civili, i vescovi di ogni provincia ecclesiastica, riuniti in sinodo, sceglievano e consacravano il candidato per una sede vacante. I vescovi nelle loro rispettive diocesi e, se necessario, i concilii locali o ecumenici provvedevano al governo della Chiesa e vigilavano sulla purezza della dottrina. Nei problemi di fede, i vescovi ricorrevano, in ultima istanza, all’autorità del vescovo di Roma.

A partire dall’Inquisizione romana, istituita nel 1542 da papa Paolo III e riorganizzata nel 1588 da Sisto V con il nome di Congregazione della Santa Inquisizione (poi ridenominata da Pio X come “Sacra Congregazione del Sant’Uffizio”, ndt), e fino al Vaticano II, il principale compito del vescovo di Roma e della sua Curia era quello di vigilare sulla purezza della fede e della morale. Per questo era lo stesso papa a presiedere l’Inquisizione. Il cardinale alla guida di tale dicastero ne era solo il segretario e poi, a partire dal Concilio Vaticano II, pro-prefetto. Il prefetto era il papa. Tale era l’importanza di questa sacra Congregazione. Nessun altro dicastero o ufficio le era superiore. Persino la Segreteria di Stato era soggetta ai suoi dettami.
Il Concilio Vaticano II fornì a Paolo VI l’occasione per ridurre l’importanza del Sant’Uffizio, a cui cambiò nome (si sarebbe chiamato Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede), liberandolo da connotazioni di repressione (“per la Dottrina”) e stabilendo che il papa non sarebbe più stato il prefetto di tale dicastero. Nell’Annuario Pontificio del 1967 appare ancora il card. Ottaviani come “pro-prefetto”, ma in quello del 1968 il card. Seper figura ormai come “prefetto”. Inoltre, con il Vaticano II, viene soppressa la Congregazione dell’Indice, che pochi anni prima era stata già ridotta a una sezione del Sant’Uffizio.
Secondo l’organigramma della Curia Romana stabilito da Paolo VI nella sua Costituzione Apostolica Regimini Ecclesiae Universae, la preminenza che fino ad allora aveva ostentato il Sant’Uffizio passa alla Segreteria di Stato. Ma questo cambiamento di accento – dal dottrinale al diplomatico – non è stato repentino. Risale alla perdita del potere temporale durante il pontificato di Pio IX, come pure al razionalismo e al liberalismo del XIX e del XX secolo. Il papato non poteva più rivendicare la propria superiorità e imporre il proprio potere sulla base di dogmi, condanne e scomuniche. Le sue dottrine erano state messe in discussione fino al discredito dalla scienza moderna. Il Vaticano scelse altri cammini per perpetuare la propria esistenza e recuperare la propria reputazione. Moltiplicò le rappresentanze diplomatiche fornendo a tutti i nunzi, a partire dal Concilio Vaticano II, la dignità arcivescovile. E promosse largamente allocuzioni e partecipazioni nei diversi campi: culturale, filosofico, politico e diplomatico. (…).
A partire da Giovanni XXIII e, soprattutto, da Paolo VI, il Vaticano sceglie la strategia populista dei viaggi apostolici per infervorare le masse, poco (o nulla) credenti. Quello che si persegue in questi viaggi non è tanto la proclamazione di dottrine (…), ma la sensazione di grandiosità e di protagonismo, facendosi ricevere e trattare con gli onori di un capo di Stato e del Pontifex di tutta la Cristianità. La dottrina e i dogmi perdevano la loro centralità per lasciare spazio al prestigio del “leader”.
Il Vaticano II ha spazzato via il Sant’Uffizio di Ottaviani e messo in cantina vari dogmi, tra i quali quello di fondamentale importanza dell’“extra Ecclesiam nulla salus” del Concilio ecumenico di Firenze del 1442. (…). I sacerdoti che abbandonano il loro ministero non sono più reprobi a vita. La confessione individuale dei peccati non è più una necessità. Le relazioni sessuali prematrimoniali divengono tollerabili. Il matrimonio smette di essere indissolubile grazie alle dichiarazioni ecclesiastiche di nullità per numerosissimi motivi, compresi quelli psicologici, che rendono la nullità un divorzio camuffato. Si toglie la scomunica alla massoneria. Gli ebrei non vengono più definiti “perfidi” assassini. I protestanti passano dalla definizione di “avversari” a quella di “fratelli”, e così via. Il tutto per ingraziarsi la nuova e cangiante civiltà che mostrava ostilità e ripugnanza nei confronti di un’istituzione dogmatica e intollerante. Era però necessario, questo sì, non creare fastidio alle potenze del mondo, anche a costo di sacrificare nobili ideali di buoni cristiani e finanche emarginando quanti tali ideali li promuovevano.
Come si è detto, nel XX secolo le nomine dei vescovi in tutto il mondo sono assunte direttamente dal papato, motivo per cui viene creata la Congregazione De Eligendis Episcopis. Con ciò, era assicurato il monolitismo gerarchico, tanto nella dottrina quanto nella disciplina interna ed esterna: una perfetta concezione dittatoriale. Si è dato così compimento alla definizione del Concilio Vaticano I che affidava al papa il massimo potere, con potestà diretta e ordinaria in tutti gli ambiti e i livelli della Chiesa. All’effimera Congregazione De Eligendis Episcopis è seguita la Congregazione Concistoriale, con identiche facoltà.
Tutta questa digressione serve ad inquadrare la mia azione all’interno della Congregazione per la Dottrina della Fede. Mi trovavo in un’istituzione che, con il pretesto di vigilare sulla purezza della dottrina, esercitava un ruolo politico e diplomatico attraverso strategie aggressive dirette ad assicurare la propria sopravvivenza come istituzione religiosa. Avevo ricevuto una formazione tradizionale dogmatica in Seminario e nell’Università di Comillas. I miei studi biblici a Roma avevano favorito un atteggiamento critico verso i fondamenti dell’intero cristianesimo. Ora ero inserito in quello che ritenevo il cuore stesso della Chiesa: l’organismo che che doveva preservare la purezza della fede e della morale. Lo credevo, ma non era così.
La Segreteria di Stato, l’organo diplomatico del Vaticano, controllava le conclusioni e le disposizioni della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, alla quale proponeva lo studio di molte questioni. La Segretaria di Stato poteva non intercettare le disposizioni poco rilevanti e prive di ripercussione politica e sociale. Invece, stracciava le conclusioni approvate in maniera regolamentare dal Sant’Uffizio se queste potevano creare fastidio a regimi, governanti, cardinali influenti o personalità diverse; oppure se potevano presentare conseguenze negative, sempre in ambito temporale. (…).
Il Sant’Uffizio (ora Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede) consta di un numero variabile di membri: circa dieci cardinali e circa sei vescovi residenziali. Sono quelli che, in ultima istanza e per votazione, approvano o disapprovano una determinata relazione o condannano una determinata persona, dottrina o scritto. Ma la realtà è che alla riunione settimanale del mercoledì assistono solo i cardinali domiciliati a Roma, che solitamente sono vecchi diplomatici in pensione, senza una rilevante formazione teologica. È vero che i cardinali hanno come riferimento gli studi precedenti di qualche consulente o perito teologo, ma questi teologi o periti, allo stesso modo dei cardinali o dei vescovi, sono stati eletti dallo stesso Vaticano secondo criteri di sottomissione e di lealtà. Vale a dire che vengono selezionati quelli che rappresentano sempre la voce del padrone. Il caso di Álvaro del Portillo (allora Segretario dell’Opus Dei), consulente attivissimo per 20 anni già dai tempi di Ottaviani, era paradigmatico. I suoi rapporti erano presenti in tutte le questioni. Erano farraginosi, senza criterio teologico o biblico e sempre nella linea più tradizionale. Era ingegnere, aveva studiato teologia, già in età avanzata, in corsi estivi, e interpretava la Bibbia come nel XIX secolo, esaminando i testi alla luce di un libro di Concordanze, sebbene le frasi avessero poco a che vedere le une con le altre, senza curarsi del diverso genere letterario e di altri elementi ermeneutici. Ricordo che un giorno commentai con il card. Seper la farraginosità e la superficialità dei lunghissimi rapporti di don Álvaro del Portillo. Il card. Seper mi disse testualmente: «Sentendo o leggendo del Portillo, si sente qualcosa di simile al tanfo di un armadio che è rimasto chiuso per mezzo secolo». Durante questo colloquio, il card. Seper accettò la mia proposta di nominare come consulenti di lingua spagnola il gesuita Marcelino Zalba e il salesiano Antonio Javierre (poi cardinale), come pure Olegario González de Cardedal come membro della Commissione Teologica Internazionale e il gesuita José Alonso (mio vecchio professore a Comillas) per la Pontificia Commissione Biblica.
Al riguardo, ritengo interessante rivelare qui che l’allora uomo forte del Vaticano, l’arcivescovo Giovanni Benelli, sostituto della Segreteria papale con Paolo VI, era solito scrivere lettere al card. Seper, mio superiore, della serie “il Santo Padre mi ha detto che”. Con questa copertura, dava ordini molto forti a cui il Sant’Uffizio era chiamato ad obbedire. Considerando che il card. Seper disponeva dell’abituale udienza settimanale con il papa, qualche volta, soprattutto quando i presunti ordini papali gli provocavano sconcerto, parlava a Paolo VI di queste sue disposizioni personali. Il papa si meravigliava, si mostrava confuso e arrossiva, ma poi cambiava discorso. Il card. Seper mi confidò (anche a mons. Tomko) che Benelli definiva disposizione papale quello che egli stimava conveniente. Lo faceva perché era lo stesso papa a consentirglielo. In tal modo, il peso del pontefice si alleggeriva. Il carattere semplice e bonaccione, per nulla tipico di un diplomatico, del card. Seper permetteva questo tipo di confidenze.