Codrignani: dal Vaticano un nuovo/vecchio ordine

ADISTA 22 GIUGNO 2019 • N. 23

DAL VATICANO UN NUOVO VECCHIO ORDINE PER LE VERGINI

DOC-2999. ROMA-ADISTA. Nel 2018, la Congregazione vaticana per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, per rispondere alle richieste, sempre più numerose, a quanto sembra, di donne che desiderano vivere da laiche “consacrate” sotto la guida del vescovo diocesano, ha pubblicato un’apposita Istruzione, intitolata Ecclesiae sponsae imago. Tornerebbe d’attualità, insomma, la forma di consacrazione antica delle donne che, celebrate dai Padri della Chie- sa, esprimevano «il sanctum propositum» di permanere per tutta la vita nella verginità «per amore di Cristo». Purché, cer- tamente, non si parli di sacerdozio femminile, che continua a essere tabù. Su questo artificioso anacronismo riflette Giancarla Codrignani, giornalista e saggista, ex parlamentare della Sinistra Indipendente, socia fondatrice e membro del Con- siglio direttivo di Viandanti, sottolineando come chi ha scritto il testo dell’Istruzione confermi «la fondatezza delle pre- occupazioni di papa Francesco quando insiste sulla necessità di una nuova educazione della sessualità come segno del- l’umanità voluta da Dio. Tanto più che alle sponsae Christi non corrisponde – sembra – alcuna reciprocità maschile». In- somma: anche nella Chiesa le donne sono ben più del 51%, e «per ora – scrive Codrignani – sembra che nessuno se ne renda conto, ma in nessuna parte del mondo se ne conquistano le capacità e le competenze regalando un Ordo Virginum», un istituto che nasce vecchio, legato a un orizzonte superato, la cui insistenza sulla verginità rivela le «evidenti origini patriarcali». Di seguito, il testo che Codrignani ha scritto per Adista. (ludovica eugenio)

ECCLESIAE SPONSAE IMAGO
Giancarla Codrignani

La Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, nell’aspettativa di una richiesta crescente da parte di donne che desiderano vivere da laiche “consacrate” sotto la guida del vescovo diocesano, ha pubblicato l'”istruzione” Ecclesiae sponsae imago. Sarebbe interessante conoscere se la Congregazione abbia svolto o intenda svolgere analoga ricerca per quantificare l’interesse di donne che desiderano – o che ritengono normale che altre desiderino – la consacrazione sacerdotale.
Infatti, come dice l’Istruzione, «fin dai tempi apostolici» donne ispirate dallo Spirito «con amore sponsale si sono dedicate al Signore Gesù nella verginità», forma di vita evangelica che si colloca «tra le altre forme della vita ascetica» nei primi secoli praticate sia da uomini che da donne. Appare un’ovvietà ritenere che, in società in cui i matrimoni non rispettavano la volontà delle donne, l’offerta cristiana apparisse liberante: nei secoli successivi la conventualità femminile non sempre divenne luogo di fuga dal mondo, bensì alternativa alla costrizione matrimoniale non voluta. Tuttavia, se nel terzo millennio la Chiesa impiega 115 paragrafi per rifare un De Virginitate sullo stile di Ambrogio o di Gregorio di Nissa, al fine di soddisfare desideri legittimi che non sono di tutte le donne, mi chiedo se sarebbe troppo lontano dallo stile tridentino ancora in uso nella Congregazione ricorrere al termine nubilato, tra l’altro pendant del celibato. Forse c’è da rammaricarsi che, soprattutto quando si prendono decisioni “di genere”, in Vaticano non prevalga la competenza dell’autorità femminile, nella fattispecie almeno delle Superiore degli Ordini religiosi. Che, presumo, avranno recepito con qualche freddezza la codificazione di un ministero che, con ben poca malizia, sembra accontentare il cardinal Luis Ladaria Ferrer, autore di una ferma reiterazione del diniego di Giovanni Paolo II al sacerdozio femminile e che, nominato nel 2016 presidente della Commissione per il diaconato femminile, ha precisato che l’impegno della Commissione era stato ordinato allo «studio» del problema senza impegnare alcuna «decisione».

L’Istruzione, uscita nel 2018, cita ampiamente i Padri della Chiesa antica, che vedevano «l’immagine della Chiesa-sposa totalmente dedita al suo sposo» e celebravano il sanctum propositum di donne – immotivatamente privilegiate, se anche l’uomo di Dio si impegna con la stessa unione sponsale – che intendevano permanere per tutta la vita nella verginità «per amore di Cristo», comprese le vedove che, forse sollevate dalla presenza di uno sposo non amato, «sceglievano la continenza in onore della carne del Signore». Mi permetto di osservare che, se la tradizione che limitava la libertà dei carismi quando si trattava di donne consacrate da un vescovo e «affidate alla sua cura pastorale» decadde nel corso dei secoli, recuperarla oggi come lascito del «rinnovamento ecclesiale che ispirò il Concilio Vaticano II», appare una forzatura; in particolare non tiene conto del rinnovamento ormai pluridecennale che ha indotto le donne a sentirsi parte della libertà dei figli di Dio, prive di “esigenze di genere” formali che auspichino la «rifioritura dell’Ordo virginum»; infatti «da san Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI hanno ricevuto preziosi insegnamenti per orientarsi nel loro cammino». Ma l’Istruzione lesina loro fiducia e prevede per l’apprendistato della postulante il ricorso a esperti con competenze psicologiche, sicura che «nel percorso formativo… acquisisce la libertà necessaria per lasciarsi educare e formare… in docilità all’azione dello Spirito», mentre si deve «soprattutto cercare di aiutarle a consolidare l’amore per la preghiera e sviluppare la capacità di gestire i ritmi della giornata, del mese, dell’anno nel dialogo con il Signore», «incoraggiandole» intanto che «si lasciano educare» e «provvedono al proprio sostentamento con i frutti del proprio lavoro o con le risorse personali». Spero che il papa abbia approvato il documento firmato dai cardinali Braz De Aviz e José Rodriguez Carballo, senza leggere espressioni che fanno della donna che sperimenta una vocazione una persona che non ha capacità di discernimento autonomo.

Ho letto e annotato l’intero documento. Mi sono chiesta quanto la società dei Christifideles laici resti ancora vittima della divisione gerarchica che il Concilio Vaticano II aveva rovesciato (il popolo di Dio precede la gerarchia ecclesiastica) e che configura in modo così anacronistico la subalternità femminile. Sorvolo sulle evidenti origini patriarcali dell’insistenza sulla verginità (erano vergini anche la Pizia e la druida Norma), del tutto impropria in un tempo in cui solo in Paesi ancora maschilisti e discriminatori l’imene intatto resta un dato mercantile a fini matrimoniali. Alcune perifrasi francamente poco accettabili riguardano il vivere l’intimità sacrale, l’importanza del «velo» (?), il fatto che la candidata non sia mai stata sposata o non «abbia vissuto pubblicamente, cioè in modo manifesto in uno stato contrario alla castità».

Chi ha scritto il testo conferma la fondatezza delle preoccupazioni di papa Francesco quando insiste sulla necessità di una nuova educazione della sessualità come segno dell’umanità voluta da Dio. Tanto più che alle sponsae Christi non corrisponde – sembra – alcuna reciprocità maschile. Se per la Chiesa cattolica la verginità è femminile e la castità celibataria maschile, sembra urgente qualche discernimento aggiuntivo, perché sono interpellate le ragioni fondanti, per esempio, dell’obbligo del diacono celibe (o vedovo) a non contrarre matrimonio e a condizionare il proprio sacramento matrimoniale (deve chiedere l’autorizzazione della moglie a recedere dalle sue prerogative). I cammini di santità non possono essere contaminati dalla sanzione sessista dell’autorità, almeno per non contraddire il monito che «nella Gerusalemme celeste tutti gli eletti sono chiamati vergini ad esprimere la loro fedeltà all’alleanza». Soprattutto, se Gesù, «il consacrato per eccellenza», visse non in termini di «separazione dal profano», ma di accoglienza della corporeità che «diventa parola, annuncio di appartenenza al Signore e di servizio gioioso ai fratelli e alle sorelle»: non avrebbe accettato che le sorelle fossero discriminate in un legame sponsale che è di tutti. Come di tutti, i battezzati almeno, sono regalità, sacerdozio e profezia.

Un commento critico di Moira Scimmi (Il Regno, 8/2019) – che è, per l’appunto, una consacrata e che da teologa ha approfondito la questione del diaconato – sottolinea la positività dell’Istruzione nell’aver raccomandato di non introdurre nuove norme gerarchiche e di non proporre percorsi uniformanti; ma intende rifare i conti con l’immagine sponsale originariamente attribuita alla Chiesa, che nella pratica ecclesiale «si esplicita nella comunione», e con il «concetto» di verginità cristiana «che invoca un adeguato approfondimento teologico». Scimmi segnala la necessità di chiarire che cosa si intenda con «l’orizzonte di una verginità non teogamica… ma teologale, cioè battesimale» se nella formazione sembra riproposta «la virtù della verginità in relazione al futuro matrimonio trasponendola sulla relazione tra la singola vergine e Cristo». Mentre mi rendo conto che si tratta di approfondire il contesto teologico con rigore di competenza per non «riportare in vita una venerabile antichità», vorrei sottolineare laicamente i limiti di un linguaggio clericale ormai poco comprensibile sia nella lettera sia nel simbolo, fonte di equivoci e incomprensioni prima di decadere dall’uso. Perfino le litanie che, dette in italiano o latino, indifferentemente richiamano alla mente un indistinto non ragionato, hanno espressioni che solo la conoscenza della tradizione scritturale possono giustificare. Non è bello che nelle confessioni dei minori passi per modalità cristiana la terminologia delle “brutte cose” e del “ti tocchi”, ormai battute da film dozzinali, tanto più che l’imbarazzo sessuofobico acuito dall’emergenza “pedofilia” induce ad accantonare problemi che, nell’età evolutiva, hanno bisogno non di penitenze, ma di educazione. Né è pensabile che sia stato tollerato fino al Vaticano II di permettere che nella definizione del matrimonio (che è un sacramento) entrasse l’espressione remedium concupiscentiae. Evidentemente, proprio partendo dal discernimento, teologico e morale, ma anche laicamente educativo, della sessualità e del suo valore e virtù, non è più rinviabile un discorso aperto e rigoroso sulla relazione tra la Chiesa e i credenti in una fase di sviluppo storico carico di trasformazioni che coinvolgono addirittura l’antropologia e che, se non si innalza il livello dei valori per traghettare la parola di Cristo rinnovandone i simboli, può distruggere il patrimonio della religione.

È tempo di chiarire a noi stessi e all’istituzione che cosa la Chiesa intenda con termini usurati da una ripetitività priva di qualunque suggestione teologicamente simbolica, come, per esempio, «verginità» e «sponsalità». Carlo Maria Martini, i cui «duecento anni di ritardo» denunciati a carico della sua Chiesa continuano a inquietare la memoria, proprio a proposito della «sponsalità» – cita Moira Scimmi – temeva che «se ne facesse quasi un privilegio e un obbligo», mentre auspicava che «si lasciassero emergere anche altre possibili metafore».

Tengo a precisare che non mi appassiona la parità nel sacerdozio e nemmeno l’accesso al diaconato. Se proprio dobbiamo scalare il percorso gerarchico, meglio partire dal “lettorato” che darebbe la facoltà di tenere omelie e leggere il Vangelo dall’altare; il diaconato, certamente testimoniato – anche se l’assenza di una matristica analoga alla patristica obbliga l’informazione alle sole fonti dei Padri –, si è esaurito nel tempo per la restrizione dei munera di quel ministerium che, secondo Ignazio di Antiochia, rende tutti i battezzati diàconoi, al servizio della Chiesa e dei fratelli. Come donne sappiamo benissimo che si finisce “sacrestane”: con o senza “imposizione delle mani”, difficile ottenere il riconoscimento autonomo dei munera docendi, sanctificandi et regendi. Il diaconato rappresenta infatti la soglia che precede il livello del sacerdozio, che per la donna significherebbe l’omologazione al modello unico di “questo” prete e l’impossibilità di aiutare la Chiesa con i carismi della cultura, anche teologica, femminile.

Tuttavia il Vaticano legge le statistiche e chiude i seminari: mentre distrae l’attenzione con una consacrazione minimale, allenterà per necessità i divieti wojtyliani. Tanto più che l’imminente Sinodo panamazzonico ha già in cantiere richieste scomode, tra cui, appunto, il sacerdozio femminile, caldeggiato dalla Chiesa memore della Teologia della liberazione che sente l’impoverimento di non essere più presente nelle periferie più decentrate nemmeno con preti itineranti che arrivino a consacrare una volta al mese. Le problematiche crescono, anche se per ora non potranno esserci cambiamenti di linea: ascolteremo qualche commento ex aereo di papa Francesco (accogliere il desiderio dei preti sposati?); ma la situazione impone prudenza. L’America Latina è in arretramento economico e politico, il Brasile in mano a Bolsonaro e i populismi disorientano anche le Chiese: la conservazione ha da sempre contato sul sostegno di molti episcopati e oggi non tutti sono in linea con l’attuale pontificato. Vi- sta da Roma la situazione non rassicura: il papa emerito ha pubblicato un lungo articolo per ragionare sui mali dell’età presente per attribuirne l’origine al Sessantotto, anche se non è malizia pensare che intendesse piuttosto dire Vaticano II, tanto più che ha firmato “Benedetto XVI”, da papa e non da nonno. Anche nella Chiesa le donne sono ben più del 51%: per ora sembra che nessuno se ne renda conto, ma in nessuna parte del mondo se ne conquistano le capacità e le competenze regalando un Ordo Virginum. l