[08 Aprile 2005]Chi cercate?

ImageSi è tentati, in un momento in cui tutti parlano, e parlano, e parlano,
e parlano, di tacere e basta. Il valore ecclesiale di un pontificato
non sta nella cronaca, per quanto enfatica e celebrativa, per quanto
commossa e partecipativa, ma sta nella ricezione che le chiese sapranno
e potranno farne. Morendo, Giovanni Paolo II ha restituito il
pontificato alla Chiesa da cui l’aveva ricevuto. 

E tutti sappiamo che
la ricezione di un pontificato così complesso, di un magistero così
totalizzante, di una situazione ecclesiale così frastagliata e così
marcata dalle asimmetrie non è cosa di giorni o di mesi. Come anche
sappiamo che, sempre, all’impatto struggente e lacerante con il
"Memento mori" fa da eco una vita che, intorno, continua
inesorabilmente a scorrere come prima. Anzi, tutti, in un modo o
nell’altro, hanno già messo un piede nel futuro. Consegnato alla storia
e, con essa, alla memoria, il pontificato di Giovanni Paolo II, entra
proprio ora, forse, nella sua fase più autenticamente vera.

Possiamo
solo tentare di dire qualcosa su quello che abbiamo visto e vediamo,
giorno dopo giorno, in queste novendiali che scandiscono, inesorabili,
il passaggio di Karol Wojtyla dal multicolore frastuono delle piazze al
buio silenzio della terra.

Ero a piazza San Pietro la sera in
cui la salma del pontefice ha cominciato a ricevere l’omaggio della sua
gente. Avevo ancora negli occhi e nel cuore le immagini della severa e
pacata cerimonia della traslazione dall’Aula clementina alla basilica,
durante la quale dolore e commozione erano modulati sulle parole, i
gesti, le cadenze e i ritmi della grande tradizione liturgica
cattolica. La folla era tanta o, forse è meglio dire, cominciava ad
essere tanta. Seria, buona, paziente: sapeva perché era lì e questo,
nonostante l’inevitabile confusione, le conferiva compostezza.

Soprattutto,
però, dal vivo si riusciva a vedere quello che nessuna trasmissione
televisiva può consentire di vedere. Quella folla era avvolta, vorrei
dire catturata dentro la rete mediatica. Difficile da descrivere, ma
elemento assolutamente indispensabile per capire o, almeno, per provare
a pensare, la grande rete delle postazioni televisive, arrampicate su
impalcature posticce o accampate su ogni terrazzo circostante
abbracciava tutto, lo conteneva come in un’immensa bolla che si
autoalimentava di momento in momento. Un brulicare di luci e di figure
umane ma, soprattutto, "l’immagine mancante", quello che non si vede
mai. Se invece entrasse a far parte del corredo delle immagini
trasmesse, infatti, smaschererebbe il grande raggiro attraverso cui i
media non rappresentano la realtà ma la creano.

Sono tornata
in basilica ieri, perché volevo stare anche solo pochi minuti lì dove
la domanda sul rapporto tra vita e potere, tra morte e storia, tra
chiesa e mondo, diventa lancinante proprio mentre miriadi di giovani e
non più giovani catturano la fotografia del cadavere di un papa che è
stato così tanto amato da tutti e così poco ascoltato da tutti.

Non
è facile, oggi, tornare agli impegni di sempre, perché il calendario
interiore continua ad essere quello delle novendiali, perché la testa è
ancora impigliata in quella straordinaria ragnatela mediatica e perché
il cuore vorrebbe chiedere a quelle folle "chi cercate?".

La
grande questione posta da questo pontificato è tutta lì, in quella
folla che, con l’andar delle ore, diventa sterminata. La compresenza di
immagini di chiesa profondamente diverse, se non tra loro antagoniste:
è questa la chiesa che Giovanni Paolo II ha lasciato nel momento in cui
il suo anello pontificale è stato spezzato quasi a suggellarne
l’unicità e l’irrepetibilità. La chiesa che si perde tra le folle e la
chiesa che si compagina nelle falangi organizzate, la chiesa del
devozionalismo irrazionale e la chiesa della consapevolezza critica, la
chiesa "strillata" dai mezzi di comunicazione di massa e la chiesa
della più dolente incomunicabilità, la chiesa compiaciuta della sua
immensa potenza e la chiesa smarrita e impaurita di fronte a qualsiasi
accenno di dubbio o di perplessità, la chiesa che grida e la chiesa che
mette a tacere.

Di fronte a questa fiumana di uomini e donne,
giovani, vecchi e bambini, che fanno la fila per dodici ore pur di
scivolare per pochi secondi davanti alla salma di un papa e pur di
catturare un’immagine tutta propria anche se, data la rigida immobilità
del cadavere, assolutamente uguale a quella di tutti gli altri una
pagina evangelica mi interpella in modo martellante: la rilettura
giovannea del miracolo della moltiplicazione dei pani (6,1-70).

Dopo
aver sfamato con pani e pesci una grande folla che lo seguiva, Gesù si
ritira sulla montagna da solo per sfuggire al rischio che lo acclamino
re. Non vuole sfuggire alla folla, ma alle sue seduzioni. Né ritiene
che le folle non siano capaci di ascoltare uno dei discorsi teologici
più difficili del suo ministero pur di insegnare agli uomini ad andare
dietro a lui non perché sono stati saziati, ma perché hanno percepito
il mistero di Dio.

A una cosa sola Gesù non può né vuole
sottrarsi: al fatto che alcuni, molti, si tirino indietro e che uno del
gruppo dei Dodici lo tradisca. Perché insieme al ministero, Gesù ha
accolto dalle mani del Padre anche il mistero dell’abbandono e del
tradimento. Per questo, bastano solo quattro parole per formulare la
domanda cruciale che tocca al cuore la comunità discepolare: "Volete
andarvene anche voi?".

Non si tratta, allora, di riproporre
l’antica, e oggi divenuta inafferrabile, alternativa tra religione e
fede, aggiornandola magari in termini sociologici come alternativa tra
massa ed élite o tra devozione popolare e consapevolezza di fede. Né,
tanto meno, si tratta di favorire l’una a discapito dell’altra.
Piuttosto, si tratta di ritrovare la fiducia in un discorso teologico
che scandalizza. Non perché chiude "il regno di Dio davanti agli
uomini" o perché impone "sulle spalle della gente pesanti fardelli", ma
perché trasmette l’assoluta novità di Dio che si fa annuncio, speranza,
questione, impegno.

Una chiesa che non ha paura del discorso
teologico, una chiesa che non ha paura dell’abbandono e del tradimento.
E’ quello che spero ripetendo a me stessa: "Signore, da chi andremo. Tu
hai parole di vita eterna".

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Roma, 08 Aprile 2005