Lettera al direttore de Il Regno di A. Grillo

Caro Direttore,

      Il Regno sta contribuendo non poco al dibattito italiano sul recente Motu
proprio “Summorum Pontificum” (=SP). La pubblicazione del testo di S.E. A.
Scola (cit.) merita perciò attenta considerazione. Ne apprezzo molto il tono e
il taglio. Rinviando ad altro luogo per un esame più articolato (cfr. www.statusecclesiae.net) vorrei qui
mettere in luce solo le principali questioni che rimangono aperte.

      L’orizzonte
in cui A. Scola colloca la questione del rapporto tra lex orandi/lex
credendi è quello caratterizzato da due distinzioni
interne all’azione rituale: da un lato quella tra istituzione e forma
liturgica, dall’altro quello tra parte immutabile e parte suscettibile
di
cambiamento. Queste differenze vengono utilizzate come criterio per
valutare la lex orandi. Tuttavia,
sebbene il rito sia una realtà complessa, la lex orandi non può godere
di una sorta di
"extraterritorialità" rispetto alla concreta forma celebrativa; in
tal caso essa guadagnerebbe in chiarezza, ma perderebbe ogni rilevanza:
soltanto la lex credendi – in certo
senso immunizzata da "ogni" azione – sarebbe la garanzia dell’azione
liturgica! Inoltre bisogna riconoscere che la distinzione tra parte
mutabile/immutabile, autorevolmente assunta dal Concilio Vaticano II,
intendeva
dischiudere soltanto lo spazio di una concreta e autorevole "mutazione
della forma" (come riforma), e non aveva in alcun modo l’intento di
assicurare la irreformabilità di un cosiddetto "uso antico".

      Ne
risulta che le idee di "istituzione/forma liturgica" e  "parte immutabile/mutabile" non
sono dello stesso ordine del concetto di "lex credendi/lex orandi".
Quelle classiche nozioni sono state elaborate per giustificare la possibile mutabilità
rispetto a quanto è immutabile: ieri giustificavano la "riformabilità"
della forma liturgica, oggi possono illudere sulla coesistenza contemporanea di
forme storicamente divenute, mentre la coppia lex orandi/lex credendi indica la dipendenza della verità creduta
dalla verità celebrata, e proprio in ciò apre ad una logica "altra".

      In
effetti, se noi giudichiamo le "varietates legitimae" non più solo
sul piano diacronico (ossia tra tempi
e ordines diversi), o soltanto su quello sincronico
(ossia nella stessa unità di tempo e di ordo), bensì in una ardita sovrapposizione
di diacronico/sincronico, determiniamo un certo capovolgimento delle intenzioni
con cui tali distinzioni sono state formulate e applicate – 50 o 500 anni fa.
Di fatto, quando Scola dice che una
pluralità di forme (o di usi) dello stesso rito non altera la "lex
orandi", conclude bene, ma da premesse troppo limitate.

      Non vi
è dubbio, infatti, che è stata proprio la Riforma liturgica a liberare energie
positive nel calibrare sempre diverse modalità di "variazione" nelle
forme rituali. Ad es., introducendo la possibilità che la "forma
latina" della consacrazione eucaristica potesse risuonare, ufficialmente,
in tante traduzioni quante sono le lingue parlate dagli uomini e dalle Chiese.
La stessa logica ha portato a poter celebrare – ad es. in Italia, dal 2004 – il
sacramento del matrimonio con tre formule diverse del "consenso" e
con quattro varietà di "benedizione degli sposi". Ancora, nella
eucaristia, il passaggio da una sola preghiera eucaristica alle 11 attuali
costituisce una modalità di "variazione" legittima della forma, che
arricchisce potentemente la "lex orandi", e così rilancia sulla
"lex credendi" una nuova sorprendente ricchezza.

      Se poi
usciamo da questa articolazione sincronica all’interno del medesimo
"Ordo" e proviamo a considerare la varietà diacronica che si
manifesta tra diversi "ordines" della medesima tradizione, allora
vediamo bene come le caratteristiche dell’Ordo del 1969, rispetto quelle del
1575 (o 1962), presentino profonde differenze, comprensibili soltanto mediante
quella "evoluzione dei riti" – guidata dallo Spirito Santo – che
assicura alla Chiesa la tradizione nel rinnovamento e il rinnovamento della
tradizione.

      Questa
pluralità – limitata alla sincronia dentro il medesimo Ordo e alla diacronia
tra Ordines diversi in tempi diversi – permette un’armonica crescita della
coerenza tra lex orandi e lex credendi, senza differenze
laceranti, ma neppure senza omologazioni prive di radici. Viceversa, la logica
"nuova" introdotta dal SP – e che perciò non può non destare qualche
legittima preoccupazione –  prevede un
intreccio e una sovrapposizione tra varietà sincroniche e varietà diacroniche, proponendo sincronicamente varianti tra
ordines diacronicamente diversi!

      Orbene,
quando entra in vigore un nuovo rituale complessivo per la eucaristia o per il
battesimo, per la penitenza o per il matrimonio, le varianti vigenti sono
quelle rese possibili dal nuovo ordo, non quelle che il nuovo ordo ha
storicamente e canonicamente inteso sostituire, emendare, riformare, per
ricondurre la Chiesa alla tradizione. Che senso avrebbe una riforma che non
riformasse nulla, ossia che rendesse sempre possibile fare come se nulla fosse
stato? Infatti, se stabilissimo che sono "legittime" tutte quelle varietates sincronicamente e
diacronicamente "esistenti come vigenti" – indifferentemente ieri o
oggi – rischieremmo di trasformare la chiesa in un museo o in un ipermercato
rituale, che riciclerebbe come "prodotti disponibili" anche i
monumenti della tradizione, rinunciando così alla propria identità storica e
vitale.

      Per
chiarire meglio tale questione, si può ricordare che lo stesso Concilio
Vaticano II ha stabilito come la "forma rituale" dell’eucaristia
debba essere riformata secondo caratteristiche che prevedano – tra l’altro –
"maggiore ricchezza biblica", "comunione sotto le due
specie" e "concelebrazione". Nessuno di questi elementi
costituisce né "istituzione" né "parte immutabile" del
sacramento e tuttavia deve essere valorizzato precisamente per il fatto che
viene considerato come elemento della "lex orandi" in grado di
arricchire e strutturare, nutrire e formare la "lex credendi". Ciò
costituisce un elemento di obiettiva differenziazione tra "ordines
diacronicamente diversi" per i quali sembra contraddittorio stabilire una
possibile contemporaneità, in cui ricchezza e povertà biblica, possibilità e
divieto di concelebrazione o di communio
sub utraque possano semplicemente convivere. In questo caso il diverso uso
comporta inevitabilmente una diversa lex
orandi, purché si accetti di interpretare il termine non con le categorie
della classica teologia dogmatico-sacramentaria, ma secondo la nuova
"mens" liturgica.

      Questo
esempio illustra bene la diversa logica
dell’adagio "lex orandi/lex credendi"
rispetto alla distinzione classica tra istituzione e forma liturgica. Ciò che
nel passato serviva a individuare il "minimo necessario" di ogni
sacramento, nel nuovo linguaggio cerca di additare il "massimo
gratuito" di ogni celebrazione, mentre nella rilettura offerta da SP la lex orandi – schiacciata com’è tra
"evidenze di fede" e "usi liturgici" – rischia di ridursi
ad un semplice "flatus vocis".

 

      Andrea Grillo